domenica 22 aprile 2018

Quanto dura un anno?



Ieri, 21 aprile, era la Giornata internazionale dell'astronomia e io, un po' per caso ma anche un po' no, mi sono posto la domanda della durata di un anno. Mi sono cioè chiesto quanto duri esattamente un anno. In realtà l'ho fatto perché sto leggendo un bel libro che tra le altre cose parla anche di questa. E ho scoperto che la domanda è meno semplice del previsto.
Sappiamo tutti che un anno civile dura tre volte di fila 365 giorni e poi una volta 366. Questo almeno è ciò che succede dall'ottobre del 1582, quando Papa Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni, di Bologna, sostituì il calendario gregoriano al giuliano. Il motivo principale della riforma fu che la distanza temporale tra due equinozi o due solstizi è di un po' più di 365 giorni. Se proprio vogliamo essere pignoli, è di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi. Questa durata, nota come anno tropico (o solare) non corrisponde però esattamente a quella del calendario gregoriano, nemmeno tenendo conto del giorno supplementrare degli anni bisestili. Oltre tutto, la durata di un giorno del 2018 non è esattamente uguale a quella di un giorno del 1582, visto in particolare che in media il singolo giorno si allunga di 1,5 millisecondi per secolo a causa del fatto che la Terra rallenta. Per questo ed altri motivi se nell'anno 3200 i nostri pro-pro-pro-ecc.nipoti vorranno che equinozi e solstizi abbiano luogo alle stesse date di oggi dovranno sopprimere un anno bisestile. E man mano che passeranno i secoli e i millenni, di anni bisestili ce ne saranno sempre meno.
Ma oltre all'anno civile e all'anno solare, esiste naturalmente anche un anno lunare. C'è chi sostiene che gli uomini conoscessero già l'anno lunare circa 17.000 anni fa, all'epoca dei graffiti nelle grotte di Lascaux; c'è chi dice che la cosa successe solo 8.000 anni fa, ma non importa. Ciò che importa è che un anno lunare di 12 lune dura 354 giorni, 8 ore, 48 minuti e 34 secondi.
Last but not least, c'è pure l'anno siderale, cioè il tempo che il sole impiega per ritrovarsi nella stessa posizione nei confronti della Terra rispetto alle stelle. La sua durata è di 365 giorni, 6 ore, 9 minuti e 10 secondi.
Anche oggi quindi, anzi oggi più di qualche secolo fa, la parola anno può volere dire cose diverse, tanto più se oltre a quelli che ho già citato aggiungiamo l'anno anomalistico, l'eclittico o il gaussiano.
Naturalmente quello che mi importa non è ricordarmi le durate esatte dei vari tipi di anni, ché quelle già le ho dimenticate due minuti dopo averle scritte. No, quello che mi piace sempre è scoprire, nei campi più diversi, che il mondo in cui viviamo è più complesso, più ricco e più affascinante ancora di ciò che credevo. E mi piace ancora di più constatare che le spiegazioni che cercano di apparire semplici, perfette e apparentementre logiche, ma che molto spesso sono solo ideologiche, si rivelano sempre incomplete e parziali. Il bello della scienza è proprio questo, che non è mai definitiva, che è sempre (o comunque dovrebbe essere sempre) aperta a nuove scoperte che rimettono tutto in gioco e cambiano la nostra visione delle cose.
Adesso devo lasciarti proprio per questo, perché tra poco vengono a prendermi per portarmi in un altro paesino dei Pirenei dove nel pomeriggio farò il mio racconto sulla fisica. In quel racconto è di questo che parlo, di ciò che Carlo Rovelli chiama lo zoppicante procedere della scienza, il che è cosa che mi fa godere come un grillo.

venerdì 20 aprile 2018

Molto interessante

L'arcipelago di Stoccolma

Nel genere Cose da sapere se vuoi sapere delle cose assolutamente inutili da sapere, ieri, leggendo un libro che non c'entra niente, ho scoperto che l'arcipelago di Stoccolma è composto da 24.000 isole. Mi sono detto che 24.000 isole sono uno stonfo. E ovviamente mi sono chiesto da dove venga la parola stonfo.
Una breve ricerca su internet mi ha portato solo a siti dall'aspetto moderatamente interessante. Uno sostiene che stonfo è una parola del dialetto pisano, un altro parla di origine fiorentina, specificando però che stonfo significa caduta rovinosa. Il che è assai onomatopeico.
Allora ho lasciato perdere e sono tornato alle isole, chiedendomi quante siano le isole italiane.
Pare siano circa 800, solo 80 delle quali abitate. Come dire che nella lista dei paesi del mondo che hanno più isole siamo molto, molto indietro. Oltre tutto, 37 delle 800 sono lacustri e 6 fluviali. Senza parlare delle isole di Ammiana, Costanziaco, San Marco in Boccalama, Vigilia, San Niccolicchio, Ferdinandea, e Il Pastore, che sono semplicemente sparite. Le prime quattro erano nella laguna veneta e ormai sono sott'acqua; San Niccolicchio, al largo di Taranto, è stata buttata giù (ammesso e non concesso che si possa buttare giù un'isola) per allargare il porto mercantile; Ferdinandea, tra la Sicilia e Pantelleria, è venuta su da sola durante un'eruzione vulcanica nel 1831, ma poi, dopo avere dato un'occhiata in giro, ha deciso di sparire senza dire niente a nessuno; Il Pastore invece, che era solo un faraglione vicino all'isola La Vacca, in Sardegna, è stato distrutto nell'800 dai militari che se ne sono serviti come bersaglio per l'artiglieria. Ancora un grande trionfo per la nostra gloriosa Marina.
Tornando agli arcipelaghi, la Svezia sempra essere la campionessa del mondo per il numero di isole: ben 267.570, solo 984 delle quali abitate. Queste almeno sono le cifre pubblicate nel 2013 dall'SCB, lo Statistiska centralbyrån, che è l'Ufficio centrale di statistica dei nostri amici giallocrociati su sfondo blu. Visto che ci siamo, perché privarci del piacere di notare che il giallo della bandiera svedese è il Pantone 109U/116C e il blu il Pantone 301? Non si sa mai, sono cose che possono sempre servire.
Quello che c'è di strano però è che nel 2001 lo stesso SCB parlava di 221.800 isole, il che sembra indicare o che le isole svedesi si riproducono — non si sa se per partenogenesi o per accoppiamento — oppure che l'SCB non è la fonte più attendibile per quanto riguarda le informazioni statistiche sulla geografia del regno di Carlo XVI Gustavo, figlio di Gustavo Adolfo e di Sibilla di Sassonia-Coburgo-Gotha. Resta il fatto indiscutibile che nessun altro paese al mondo ha tante isole quanto la Svezia.
Al secondo posto, ammesso e lungi dall'essere concesso che accettiamo di mettere insieme isole lacustrri e isole marine, troviamo la Finlandia, anche se è importante sottolineare che ben 98.050 delle sue 179.584 isole si trovano su uno dei suoi 188.000 laghi.
Comunque sia, anche tralasciando le isole lacustri, la medaglia di bronzo va alla Norvegia, che di isole ne ha 50.000.
Al peggiore di tutti i posti, il quarto, c'è il Canada, che però si consola con il record del mondo delle isole in acqua dolce, visto che nella Georgian Bay, che è collegata al lago Huron, a nord-ovest di Toronto, dal Main Channel, o Canale Principale (il che ci fa nascere dei dubbi sul grado di creatività toponomastica dei concittadini di Justin Trudeau), di isole ce ne sono più di 30.000. Ho messo più di 30.000 in corsivo perché le mie ricerche hanno dimostrato che fino a oggi nessun abitante di quelle fredde terre nordiche si è preso la briga di contare le isole una per una. Il che non onora certo il paese che ha sulla bandiera una foglia di acero rossa Pantone PMS 485 C. Ma lasciamo perdere. Tanto più che per oggi mi pare di avere dato un contributo sufficiente allo sviluppo della tua cultura generale.
Oltre tutto è l'ora di pranzo, quindi ti saluto.

sabato 14 aprile 2018

Do you know Rossini?

Gioachino Rossini. Proprio un bel ragazzo

Sì, va bene, mi dirai. Però con tutto quello che succede nel mondo tu stai lì a farti girare i testicoli per una robina simile?
Lo so, non ne vale la pena. Ma non ci posso fare niente, sono fatto così.
Ma incominciamo dall'inizio.
Siccome Gioachino Rossini (al battesimo Giovacchino Antonio Rossini) è nato nel 1868, quest'anno ricorre il suo 150° anniversario. Ovvio quindi che il Comune di Pesaro, sua città natale, abbia deciso di celebrarlo in pompa magna.
Cosa fa un Comune in questi casi? Prima di tutto mette su un bel comitato, che decide di chiamarsi Rossini 150; poi cerca degli sponsor e trova la Rai, la Conad, e tutta una serie di altri volonterosi; infine chiede e ottiene il patrocinio dell'Unesco, il che non è roba da poco. Fatto questo, si cerca un'agenzia di comunicazione, che in questo caso è la Omnia Comunicazione, con base a Fano. E la Omnia lavora un po' sul progetto e se ne viene fuori con un'immagine e con uno slogan. Lo slogan che quei geni della Omnia trovano è Celebrazioni rossiniane – Pesaro brings Rossini in the world, Rossini brings Pesaro in the world.
E a me girano subito i testicoli. Prima di tutto mi girano per l'inutile utilizzo dell'inglese per una campagna pubblicitaria destinata magari, sì, all'estero, ma anche all'Italia. Davvero sarebbe costato troppo mettere qualcosa in italiano per la campagna italiana?
Ma soprattutto: davvero non c'era una persona, una sola, nella Omnia, o nel comitato messo su dal Comune di Pesaro, in grado di rendersi conto che quel brings Rossini in the world in inglese è un errore che fa ridere anche i polli e che comunque farà ridere tutti gli anglofoni che lo leggeranno? Davvero sarebbe costato troppo fare una telefonata di verifica, o mandare una mail a qualcuno che parla abbastanza l'inglese, o anche solo verificare su internet per assicurarsi che quella frase in inglese era corretta? Pesaro brings Rossini to the world, cacchio! Non in the world! Te la immagini una campagna pubblicitaria di un comitato americano che ti parlerebbe di persone che “fanno decisioni”, solo perché in inglese si dice decision-maker?
Chiamalo provincialismo, chiamalo anglofilia de nojantri, chiamalo stupidità, chiamalo come vuoi, ma a me fa girare i testicoli. E in questi casi c'è un solo rimedio: andarsi a fare un buon caffè. Cosa che vado immediatamente a mettere in cantiere, magari ascoltandomi lo Stabat Mater.

domenica 1 aprile 2018

I cargo del Lago Amaro

Un francobollo fatto a mano, emesso dal cargo cecoslovacco Lednice

Sai com'è al risveglio: certe volte ti vengono in mente cose strane. Oggi è Pasqua e ieri un amico ebreo americano aveva messo su Facebook la ricetta del piatto tradizionale che aveva preparato per Pèsach, la Pasqua ebraica. Probabilmente è per questo che al risveglio mi sono chiesto come cacchio avesse fatto il popolo ebreo per metterci 40 anni per andare dal Cairo a Gerusalemme.
Mi sono alzato, ho aperto il computer, sono andato su Google Maps e ho visto che il viaggio a piedi da una capitale all'altra è di 728 chilometri. Ho fatto due calcoli, partendo da 40 anni che fanno 14.610 giorni (365 x 40 + 10 giorni degli anni bisestili) e ho scoperto che in media gli ebrei avevano fatto un po' meno di 50 metri al giorno. Il che, dobbiamo ammetterlo, non è un granché.
Poi però, rinfrescando qua e là la mia memoria su vari siti, ho visto che il Faraone biblico è spesso identificato con Ramsete II, che non aveva la sua capitale al Cairo, bensì a Pi-Ramses (“Dimora di Ramsete”), un centinaio di chilometri a nord-est del Cairo. La cosa è interessante non solo perché adesso so che dimora in egiziano antico si diceva pi, che è una cosa che può sempre servire, ma anche perché ho visto che da Pi-Ramses a Gerusalemme i chilometri sono solo 706, il che abbassa ulteriormente la media giornaliero-chilometrica dell'Esodo.
Naturalmente tutti quelli che credono nella Bibbia come in un libro sacro sostengono che i 40 anni sono simbolici, come lo fanno per tutte le cose particolarmente bizzarre e assolutamente indifendibili contenute in quel librone, cose tipo la creazione del mondo in 6 giorni (Gen 1-11), i 950 anni di vita di Mosé (Gen 9, 28-29), la storia di Giacobbe che fa nascere animali striati mostrando ai loro genitori non striati dei rami intagliati a strisce mentre si accoppiano (Gen 30, 37-43), il fatto che la lepre sia un ruminante (!) (Lv 11, 6), o che il Sole giri intorno alla Terra (Gs 10-12), tanto per citare alcune delle più divertenti.
Guardando Google Maps però ho scoperto un'altra cosa: Mosè & Co. non avevano nessuna ragione di passare dal Mar Rosso, visto che anche considerando che sia il Golfo di Suez che quello di Aqaba fanno parte integrante del Mar Rosso, andare fin lì per attraversare sarebbe stato un po' come passare da Genova per andare da Torino a Venezia. Si può sempre fare, ma si allunga.
Anche in questo caso naturalmente ci sono quelli che dicono che Mar Rosso è da prendere simbolicamente e che in realtà Mosè e i suoi hanno attraversato uno dei due Laghi Amari, probabilmente il Grande, visto che pare che il Piccolo ai tempi dei Faraoni fosse privo d'acqua. Lasciando momentaneamente perdere la bizzarria dell'ignoto autore che, probabilmente per ignoranza geografica, aveva deciso contro ogni logica di far passare i suoi antenati da un bacino acquifero, ho continuato a passeggiare su Google Maps e Wikipedia, fino a quando è arrivata una sorpresa. Ho trovato una storia che non conoscevo e che vado immediatamente a raccontarti nel caso non la conoscessi nemmeno tu.
Tutto è incominciato il mattino del 5 giugno 1967, mentre il cargo inglese Agapenor stava attraversando il Canale di Suez in un convoglio che comprendeva in tutto quattordici navi. Ora, se vogliamo essere precisi (cosa che vogliamo sempre essere), il Canale di Suez parte, a sud, dal porto di Suez (cosa in sé assai logica) sale a nord fino al Piccolo Lago Amaro, passa nel Grande, riprende la sua forma canalosa (aggettivo da preferire sempre a canaliana, canalese e soprattutto canalotica), passa dal Lago Timsah e fila diritto verso nord fino a Porto Said.
Verso le 9 del mattino del 5 giugno 1967, l'Agapenor era da qualche parte nel Grande Lago Amaro quando improvvisamente i marinai hanno visto uno stormo di caccia israeliani che volavano a bassa quota verso ovest e poco dopo hanno sentito dei grossi boati. Un paio d'ore prima, il comandante era stato informato dell'inizio di quella che sarebbe diventata la Guerra dei Sei Giorni, quindi non si stupì. Quello era l'attacco preventivo degli israeliani, preventivo come tutti glmi attacchi di tutti quelli che alla fine vincono la guerra. Il comandante decise però di gettare l'ancora al centro del lago, il che gli sembrava molto meno rischioso che continuare lungo il canale. I comandanti degli altri tredici cargo fecero la stessa cosa. Saggia decisione.
Senonché gli egiziani decisero rapidamente di chiudere il canale, sia a nord che a sud, facendo affondare due navi che avevano lì e delle quali probabilmente non avevano gran bisogno e, già che c'erano, distruggendo pure un ponte. E le 14 navi, che, detto per inciso, battevano bandiera inglese (4), tedesca, svedese, polacca, (2 ciascuna), bulgara, statunitense, cecoslovacca e francese (1 ciascuna), restarono bloccate… per otto anni.
In realtà nessun membro di nessun equipaggio fu costretto a passare otto anni in mezzo a un lago amaro in pieno deserto. Dopo i primi tre mesi tutti furono sostituiti da equipaggi più ridotti, che a loro volta furono poi sostituiti ogni tre mesi. Però, nonostante questo alternarsi di persone diverse, incominciò rapidamente a formarsi una strana ed eterogenea comunità. Le navi dovevano essere mantenute in buono stato e ogni tanto i comandanti ordinavano di accendere i motori e di fare un giretto nel lago, senza però avvicinarsi troppo alle rive, visto che da una parte c'era l'esercito egiziano e dall'altra quello israeliano, entrambi piuttosto nervosetti.
I marinai passavano il tempo come potevano, facendosi trainare su una tavola da surf dalle scialuppe di salvataggio, approfittando della piscina della nave svedese Killara, del piccolo cinema della bulgara Vasil Levski, del vasto ponte dell'inglese Port Invercargill per dei tornei di calcio e perfino di una sala della tedesca Norwind per le messe domenicali.
Nell'ottobre del '67 gli equipaggi, riuniti a bordo della svedese Melampus, fondarono la GBLA, la Great Bitter Lake Association, che l'anno successivo organizzò i Giochi Olimpici di Bitter Lake proprio mentre a Città del Messico si svolgevano gli altri. Quelli di Bitter Lake comprendevano tra l'altro prove di vela, tuffi, corsa a piedi, salto in alto e tiro a segno, oltre ai tornei di calcio e di pallanuoto. I giochi furono sponsorizzati dal Daily Express londinese e il medagliere vide vincitori i polacchi, seguiti dai tedeschi e dagli inglesi.
Nessuno ricorda esattamente quale nave emise i primi francobolli fatti a mano, ma ciò che è sicuro è che il governo egiziano li riconobbe come emissioni ufficiali e che oggi quei francobolli sono molto ricercati sul mercato filatelico.
Altra certezza: qualora dei futuri archeologhi (o se preferisci archeologi, per me è lo stesso) dovessero scavare un giorno sul fondo di quello che oggi è il Lago Amaro, sarebbero probabilmente sorpresi dal ritrovamento, bottiglia più, bottiglia meno, di circa un milione e mezzo di bottiglie di birra, più un numero imprecisato di bottiglie di vino, tutte rigorosamente svuotate in otto anni dagli equipaggi britannico-statunitenso-cecoslovacco-tedesco-franco-polacco-bulgaro-svedesi. La stima del numero di bottiglie la dobbiamo a tale Arthur Kensett, comandante della Port Invercargill a partire dal 1969, che ringraziamo vivamente anche se, visto che se di mestiere faceva il comandante di cargo trentanove anni fa, oggi ha buone probabilità di trovarsi sotto terra.
Nel corso degli otto anni dal '67 al '75, tremila uomini si sono avvicendati sulle 14 navi, alle quali ne va peraltro aggiunta una quindicesima, la statunitense Observer, isolata sul vicino Lago Timsah. Nel 1969 tutti gli equipaggi furono drasticamente ridotti e i membri della GBLA passarono da 200 a 50 tra giugno e dicembre. Il canale fu finalmente riaperto nel 1975.
Il libro Stranded In The Six-Day War, di Cath Senker, che racconta tutta la storia, è diponibile su Amazon.uk per la modica somma di 11,99£ e se credi che io non me lo compri ti sbagli di grosso. Non subito però; prima vado a farmi un buon caffè.