lunedì 19 marzo 2018

Jane



Ieri sera ho visto un bel documentario. Intitolato semplicemente Jane, è essenzialmente un montaggio a partire da un centinaio di ore di immagini girate negli anni '60 da Hugo van Lawick per il National Geographic.
Non sono un fan del National Geographic, che ha sempre prodotto immagini troppo patinate e che troppo spesso — come lo ammette onestamente la direttrice attuale della rivista, Susan Goldberg, nel numero datato aprile 2018 e interamente dedicato ai problemi razziali — hanno offerto ai lettori visioni paternaliste e perfino razziste delle civiltà non occidentali. Per gli stessi motivi non sono un fan del canale televisivo della NG. Ma questo documentario volevo proprio vederlo, perché la Jane del titolo era Jane Goodall.
Di lei mi aveva parlato per la prima volta nel 1969 la mia amica Chiara, allora studentessa in veterinaria ed entusiasta raccontatrice di storie di scimpanzé e gorilla. Il suo entusiasmo mi aveva contagiato e tre anni dopo, a New York, vedendo in libreria un'edizione tascabile di In the Shadow of Man, il terzo ma di gran lunga più famoso libro della Goodall, lo comprai e lo lessi avidamente. Quel libro ce l'ho ancora, anche se le pagine, più che ingiallite, sono ormai brunite dal tempo. Una decina di anni fa, quando mi sono separato dalla maggior dei libri che avevo in casa regalandoli a una biblioteca, questo è uno dei pochi che ho tenuto, uno dei pochi dai quali non ho potuto separarmi. Quindi è ovvio che ieri sera abbia guardato quel documentario. Bello.
Jane Goodall è un personaggio affascinante. Nata nel '34 a Londra, fece conoscenza col suo primo scimpanzé a 4 anni. Lui si chiamava Jubilee ed era un peluche. Lei era troppo giovane per dirgli "Tu Jubilee, io Jane", ma non importa.
Un po' più tardi, Jane lesse la serie di libri del Dottor Dolittle, che raccontavano di un medico che, lasciando da parte gli umani, si metteva a curare animali, dei quali capiva e parlava la lingua, per poi diventare naturalista.
A 23 anni, dopo avere lavorato un po' come dattilografa e poi come cameriera non parlo più di Dolittle, riparlo di Jane), spese tutti i suoi risparmi nell'acquisto di un biglietto per il Kenya, dove una sua amica d'infanzia l'aveva invitata. Il Kenya a quei tempi era ancora una colonia britannica, da vari anni teatro di quella rivolta dei Mau-Mau che l'avrebbe portato all'indipendenza dal Regno Unito nel dicembre del '63.
A Nairobi Jane ottenne un appuntamento dal famoso paleoantropologo Louis Leakey, i cui ritrovamenti avevano dimostrato che l'homo sapiens veniva dall'Africa e non dall'Asia, come si credeva allora. Lei voleva solo incontrare uno dei suoi idoli, sperava di poter parlare un po' con lui del suo tema preferito, gli animali selvaggi dell'Africa, ma lui l'assunse come segretaria. Sarebbe logico pensare che all'inizio Leakey fu solo colpito dall'entusiasmo di quella magrissima biondina dalla coda di cavallo da Alice nel paese delle meraviglie e dagli incisivi da Bianconiglio, ma da quanto racconterà poi la stessa Goodall le avances del cinquantaquattrenne scienziato con moglie e tre figli lasciano supporre altri motivi. Ma non importa. Lei riuscì, con quella calma, quella pazienza e quella determinazione che caratterizzeranno poi tutto il suo lavoro, a calmare i bollori del suo datore di lavoro, che finì per capire che non c'era niente da fare.
Leakey, che quando non si lasciava sopraffare da quelle tempeste ormonali che a una certa età sono un chiaro sintomo dell'avvicinarsi della senilità e che io stesso, vabbè, lasciamo perdere. Leakey, dicevo, da grande ammiratore di Darwin, era convinto che gli uomini e i grandi primati avessero degli antenati comuni, il che, per strano che possa sembrare oggi, una sessantina di anni fa non era ancora accettato da tutti. Pensava anche che solo uno studio in loco di scimpanzé, gorilla e oranghi avrebbe permesso di trovare conferme a questa sua idea. Quando conobbe Jane, si disse che il fatto stesso che non aveva mai messo i piedi in un'aula universitaria sarebbe stato un vantaggio, perché l'avrebbe lasciata libera dai preconcetti dell'insieme del mondo scientifico. Le propose quindi di andare a studiare il comportamente degli scimpanzé in culo al mondo, che in quel caso era la Tanzania occidentale. Lei accettò con entusiasmo. 
Prima però, forse per non esagerare con l'ottimismo, Leakey la rimandò per un anno a Londra, per una rapida formazione di base sia con il primatologo Osman Hill che con lo specialista dell'homo abilis John Napier.
Di ritorno in Africa, il 14 luglio 1960 Jane arrivò nel Parco Nazionale del Gombe Stream, sulle rive di quel lago Tanganica che funge da confine tra Tanzania e Congo. Da notare però che le autorità britanniche avevano escluso nella maniera più assoluta di permettere a una ventiseienne biondina londinese con coda di cavallo e denti da coniglio di andarsene da sola nella foresta equatoriale, il che pareva tanto più ragionevole che la città più vicina al suo luogo di destinazione previsto, Kigoma, era inondata da migliaia e migliaia di congolesi che, attraversando in un modo o nell'altro i 40 chilometri di lago, erano sfuggiti alle crudeltà della guerra civile per venirsi a rifugiare in quello che allora era ancora il Tanganica e che sarebbe poi diventato la Tanzania. Jane contornò quel divieto nella maniera più semplice, chiedendo alla madre di accompagnarla. Reazione molto british. Soprattutto da parte della madre, che accettò senza indugi. 
È così che Jane diventò la prima delle Trimates, come dicono gli anglofoni unendo il prefisso tri al sostantivo primati in riferimento alla stessa Goodal, a Dian Fossey, che studierà i gorilla in Ruanda e a Biruté Galdidas che farà lo stesso con gli oranghi nell'isola del Borneo. Tutt'e tre partiranno grazie a Leakey.
Sai cosa? Mi fermo qui. Sì, lo so, potrei racconrati anche altre cosqe belle, ma per oggi ho scritto abbastanza. E poi non ho voglia di parlarti del documentario. Ti dirò solo che a me è piaciuto e quando mi sono alzato dalla poltrona sono andato a prendere il libro della Goodall dallo scaffale e me lo sono portato in camera da letto in vista di una prossima rilettura. So che su Sky il documentario ripasserà. Se fossi in te, io me lo guarderei.Però fai tu.
Ah, un ultimo dettaglio: il fotografo Hugo van Lawick a cui ho accennato all'inizio si chiamava in realtà Hugo Arndt Rodolf, Barone di Lawick. Siccome ha poi sposato Jane Goodall, lei è baronessa. O lo è stata. Divorziando da un barone la ex-moglie resta baronessa? Boh. Per fortuna la Regina Elisabetta l'ha fatta Dame Commander of the Order of the British Empire, il che magari non fa di lei una Baroness, ma una Dame sì. E questo è sempre meglio di niente.
Mo' vado a farmi un caffè.

mercoledì 7 marzo 2018

Un interessante comitato



Questo è il Primo Ministro indiano. No, non quello sullo sportellone dell'aereo, quello con le mani giunte. Si chiama Narendra Damodardas Modi e si è messo in testa di riscrivere la storia dell'India. Il suo scopo è di dimostrare che L'india è sempre stata e deve continuare a essere induista e che quindi i più o meno 260 milioni di musulmani, buddisti, jain, cristiani, sikh e zoroastriani sono dei puzzoni. 
Che vedesse i musulmani come cittadini di seconda classe, Modi lo aveva già ampiamente dimostrato durante i progrom anti-islamici del 2002 nel Gujarat, stato del quale era Chief Minister. In quell'occasione perirono 1.144 persone secondo le autorità, più di 2.000 secondo varie fonti indipendenti, e ci furono 150.000 profughi.

Da quando è diventato Primo Ministro, Modi non ha mai smesso di promuovere il nazionalismo religioso, anche con dichiarazioni imbarazzanti. Un articolo dell'agenzia Reuters ricorda che in occasione dell'inaugurazione di un ospedale di Mumbai Modi disse:

Noi adoriamo Ganesh e forse a quei tempi c'era un chirurgo plastico che mise la testa di un elefante sul torso di un uomo. Ci sono molte aree allo sviluppo delle quali i nostri antenati hanno largamento contribuito.

Niente da obiettare, Mister Modi: in fondo anche in Occidente c'è chi è convinto che la Terra sia stata creata 5.000 anni fa da un signore con barba bianca e triangolo dorato dietro la testa che poi ha avuto un figlio da una vergine rimasta tale dopo il parto.

La Reuters rivela che il governo Modi ha messo in piedi un bel comitato di 14 membri con lo scopo di dimostrare: 1) che gli indiani moderni sono i discendenti dei popoli che abitavano l'India molte migliaia di anni fa e non di quelli che l'hanno invasa 3.000 anni fa e 2) che testi come Il Ramayana e il Mahabharata dicono tutta la verità e vanno presi alla lettera.

Il comitato è presieduto da un tale K. N. Dikshit, il cui cognome, almeno foneticamente, significa cacca di pene, il che non lascia presagire granché di buono. E infatti Mr. Dikshit ha candidamente dichiarato che gli era stato chiesto un rapporto che potesse aiutare il governo a riscrivere alcuni aspetti della storia antica
Non per vantarmi di avere scritto tre righe fa il che non lascia presagire niente di buono, ma quando un governo si mette in testa di riscrivere la storia, non a caso chiede aiuto a delle cacche di pene.

Dietro queste porcate c'è il potente RSS, Rashtriya Swayamsevak Sangh (Organizazione Volontaria Nazionale), che da anni sostiene attivamente il partito di Modi, il BJP (Bharatiya Janata Party, ovvero Partito del Popolo Indiano). L'RSS si è distinto nel 1992 partecipando all'organizzazione della distruzione di una moschea del XVI secolo nella città di Ayodhya, nell'Uttar Pradesh. Quell'incidente incidente negli anni successivi è stato all'origine della morte di varie migliaia di persone nel corso di manifestazioni, pogrom e altre spedizioni e controspedizioni punitive in giro per l'India.

Il comitato, ufficialmente chiamato comitato per lo studio olistico dell'origine e dell'evoluzione della cultura indiana a partire da 12.000 anni fa e ai suoi interscambi con altre religioni del mondo, il che non è poco, è stato istituito dal Ministro della Cultura, Maresh Sharma, un medico, che i giornalisti della Reuter citano tra virgolette: “Venero il Ramayana e credo che sia un documento storico. Chi crede che si tratti di finzione si sbaglia completamente.”

È bene ricordare che il Ramayana racconta tra l'altro che il dio Rama, volendo liberare la moglie Sita, tenuta prigioniera dal demone Ravana sull'isola di Lanka (attuale Sri Lanka), si alleò con il re delle scimmie. Le stesse scimmie costruirono un ponte tra l'India e lo Sri Lanka, ponte fatto di pietre che galleggiavano perché su ognuna di loro c'era inciso il nome di Rama. E mi fermo qui.

Sia chiaro: il Ramayana è molto bello, su questo non ci piove. Ma anche la storia di Zeus e Leda, o quelle di Orfeo ed Euridice, della nascita di Atena e della mela d'oro lo sono. Non per questo si deve temere di essere smentiti affermando che chiunque sostenga che sono meno fittizie di quella di Biancaneve e dei sette minatori diversamente alti è matto come un equus caballus. (Il latino è per fare il figo)

Che sia per questo che il ministro ha nominato tra i membri del comitato un certo Professor Santosh Kumar Shukla, che ha detto ai giornalisti della Reuters che crede che la cultura indiana sia vecchia di milioni di anni? Qualcuno può per favore ricordargli che homo sapiens è apparso sulla Terra, anno più, anno meno, tra 200.000 e 300.000 anni fa e che è solo — anche qui anno più, anno meno — 70.000 anni fa che ha deciso di andare a vedere se fuori dall'Africa si stava meglio? Grazie.

Viviamo davvero in un'epoca formidabile. La stupidtà, sorella gemella del fanatismo religioso, dilaga ovunque. Anche, ahinoi, in quell'India che ha visto la nascita di alcune delle religioni più tolleranti del mondo.

A parte andare a farmi un caffè, non saprei proprio come reagire.

sabato 3 marzo 2018

Ouagadougou mon amour



Questa bella ragazza, sempre pronta ad accoglierti al suo fianco su una panchina, si trova all'ingresso del Centre Culturel Français di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Ieri mattina, verso le 10, a una cinquantina di metri da lei, praticamente sul marciapiedi di fronte, un gruppetto di uomini armati ha prima fatto saltare per aria un'automobile parcheggiata, poi ha incominciato a sparare sui passanti ed è entrato nella sede dello Stato Maggiore dell'esercito burkinabé. Allo stesso momento un altro gruppo armato tentava di dare l'assalto all'ambasciata francese, a un paio di chilometri da lì. Verso mezzanotte il Ministro della Sicurezza, Clément Sawadogo, ha comunicato in una conferenza stampa che 8 assalitori e 8 militari burkinabé erano stati uccisi e che i feriti erano 80, ma questa mattina il giornale-radio francese parlava della possibilità di 30 morti.
Sono stato più volte a Ouagadougou. Nel 2005 ci ho passato un mese intero. Dirigevo un seminario di formazione per marionettisti allo Spazio Culturale Gambidi, un po' in periferia, ma dormivo in un albergo sullo stesso marciapiedi del Centre Culturel. Al mattino era una macchina del Centre che mi portava a Gambidi, ma al pomeriggio tornavo seduto sul portabagli di un motorino cinese guidato da uno dei miei stagisti, che zigzagava allegramente nel traffico dei viali polverosi della capitale.
Ho molto amato il Burkina Faso. I francesi l'avevano chiamato Alto Volta, dal nome del fiume che ha origine nel paese e poi va a gettarsi nel Golfo di Guinea dopo aver attraversato il Ghana da nord a sud. È Thomas Sankara, “il Che Guevara africano”, che l'ha chiamato Burkina Faso, “la terra degli uomini integri.”
Dal medioevo alla metà dell'800 quella parte di Africa Occidentale ospitava il regno dei Mossi, popolo fiero, che seppe resistere per secoli a tutti i tentativi di invasione e anche di penetrazione dell'Islam. Poi arrivarono i francesi e dissero che quella era terra loro. Tracciarono arbitrariamente delle frontiere, prima dicendio che quelle terre erano parte integrante dell'Africa Occidentale Francese, poi dividendole un po' tra Costa d'Avorio, Mali e Niger, poi cambiando idea e dicendo che facevano parte della Costa d'Avorio, poi cambiando di nuovo e inventandosi l'Alto Volta. Il tutto nel giro di un centinaio di anni. Nel frattempo avevano distrutto il tessuto sociale, cancellato le tradizioni, imposto una nuova lingua, nuove leggi, nuovi comportamenti e dei libri di storia che incominciavano con Nos ancêtres, les Gaulois (i nostri antenati, i Galli), come lo sanno tutti quelli che sono nati nelle colonie francesi in giro per il mondo.
Sì, ho molto amato il Burkina Faso e ho spesso notato come nei paesi vicini, come il Mali e il Niger, ma anche il Senegal, che è un po' più in là, il Burkina avesse la reputazione di ospitare popoli onesti e lavoratori. Dico popoli al plurale perché le frontiere coloniali non hanno mai tenuto conto dei popoli, ma solo degli interessi dei colonizzatori. Le frontiere dei paesi africani sono linee immaginarie e decise a Parigi, a Londra, a Berlino, a Lisbona, a Bruxelles e un po' anche a Roma. Posti lontani dove nessuno perdeva tempo a chiedersi che senso avrebbero avuto quelle linee e che tensioni avrebbero creato tra popoli diversi, che avevano sempre vissuto in maniera autonoma e che improvvisamente si scoprivano cittadini (di seconda classe, ovviamente) di paesi inventati. Allora è sempre bene ricordare che nel Burkina Faso non vivono solo i Mossi, ma anche i Gurunsi, i Bobo, i Senufo, i Fulbe e molti, molti altri.
Stamattina, quando ho sentito dell'attentato di ieri, forse perché dieci minuti dopo essersi svegliato uno è un po' più sensibile, o fragile, non so, sono andato in sala e ho preso in mano la iena di bronzo che mi piace tanto. L'ho comprata in un negozietto tra il Centre Culturel e lo Stato Maggiore, dietro il grosso leone di cemento con la targhetta che spiega che quello è un monumento simbolo dell'amicizia tra la comunità urbana di Lione e la città di Ouagadougou e che è stato inaugurato il 12 febbraio 2000


Già, cent'anni di colonizzazione, di appropriamento indebito, di distruzione di tutto ciò che c'era da distruggere, e poi un bel monumento di cemento come simbolo di amicizia.
Vallo a raccontare a Augustin Varin, morto il 9 ottobre del 1918 e sepolto nel piccolo cimitero militare francese di Ouagadougou. A quel cimitero si accede dalla platea del teatro del Centre Culturel, attravreso una porticina in ferro. La chiave ce l'ha uno dei custodi. È per puro caso che un giorno l'ho visto aprire quella porticina e passare dall'altra parte, dove ho intravisto delle tombe. L'ho subito seguito. 

 
C'erano già stati attentati a Ouagadougou negli ultimi anni, all'Hotel Splendid, al caffè Cappuccino, all'Aziz Istanbul e al Taxi Brousse. Ce ne saranno altri, non c'è bisogno di essere un profeta per immaginarlo.
Ho rimesso la mia iena sulla sua mensola. Ho guardato il quadro di fianco alla poltrona, non firmato, ma dipinto da un pittore burkinabé. Quando sono uscito di casa per andarmi a comprare il giornale, ho accarezzato la piccola spirale di bronzo che da anni è fissata al mio portachiavi.
E poi mi è tornata in mente un'altra foto. L'ho scattata una domenica pomeriggio. Eravamo andati non so più dove con il direttore del Centre Culturel e stavamo tornando indietro. Avevo la macchina fotografica in mano e il finestrino abbassato. Ogni tanto scattavo, d'istinto. Per questo l'immagine è leggermente storta e anche un po' sfuocata. Ma non importa. Questa foto l'ho sempre trovata assurda. Piena di quell'assurdità che un po' dappertutto in Africa ti sorprende e ti suscita una risata. Ma poi ti accorgi che la risata ti si ferma in gola e diventa amara e non sai più cosa farne. E di colpo ti senti solo e ti chiedi cosa ci fai lì, a scattare foto e a insegnare come si muovono le marionette.

 
E anni dopo, quando senti parlare di passanti uccisi da pallottole, di passanti che magari stavano proprio andando al Centre Culturel, dove magari avevano appuntamento ai tavolini del caffè di fianco alla panchina dove quella ragazza sorridente e colorata è sempre pronta ad accoglierti al suo fianco, ti accorgi di avere un nodo in gola e di avere voglia di gridare e magari anche un po' di piangere. Poi vai a comprare il giornale e guardando la prima pagina ti torna in mente che domani si va a votare e il nodo in gola si fa ancora ancora più grosso e quasi ti impedisce di respirare. E per continuare a camminare sotto la pioggia devi sforzarti, devi pensare al caffè che ti aspetta al bar e che magari almeno una briciola di quel nodo se la porterà via.

giovedì 1 marzo 2018

Oggi ceci



Ieri pomeriggio ho fatto cuocere dei ceci. Come sono solito fare in questi casi, ne ho messi in pentola più del necessario, dicendomi che il resto l'avrei usato nei prossimi giorni, magari per un bell'hummus, o una pasta e ceci, o altro.
Stamattina, aprendo il frigorifero in vista della prima colazione, mi sono reso conto che i ceci rimasti erano un po' tanti e ho deciso di dividerli in due, mettendone una metà nel freezer. Stavo travasando ceci da un contenitore medio a un contenitore piccolo quando mi è venuto da chiedermi da dove venisse la parola cecio. E poi: cecio o cece? E ancora: perché in inglese si chiama pisello di gallina (chickpea) Perché invece gli americani lo chiamano garbanzo bean (fagiolo garbanzo)? E i francesi, perché lo chiamano pois chiche?
Non preoccuparti: anch'io certe volte mi dico che la mia mente funziona in modo strano. Ma non ci posso far niente, sono curioso. Soprattutto quando si tratta di cose che probabilmente non serve a niente sapere.
Sbarazziamoci subito delle traduzioni, incominciando dall'inglese, lingua nella quale a quanto pare la parola chickpea non vuole affatto dire pisello di gallina: quel chick deriverebbe dal francese chiche (misero), derivato a sua volta dal latino cicer, che già significava cece. In latino però c'è anche ciccum, parola che in origine indicava la membrana che ricopre i chicchi della melagrana e che in italiano si chiama cica. La stesso ciccum col tempo venne poi ad indicare una piccola quantità di qualcosa, un generico nonnulla.
Speravo che questo mio post avrebbe potuto essere essere ordinato, proseguendo logicamente da un punto al seguente, ma quando si tratta di etimologie — ed è questo il bello — non si può mai procedere in linea retta. Ogni derivazione è un rimando a qualcos'altro, che suscita nuove curiosità. Quindi non esitiamo a procedere in maniera del tutto disordinata.
Nel latino cicer non è difficile individuare la radice del cognomen Cicero. C'è chi sostiene che Cicerone si chiamasse così perché uno dei suoi antenati si era arricchito con il commercio di ceci; c'è invece chi sostiene che un altro dei suoi antenati avesse sul naso un bitorzolo grosso come un cece. Nessuno parla di un antenato che commerciava in ceci e che contemporaneamente aveva un bitorzolo sul naso, ma non importa.
Tornando all'inglese, l'Oxford English Dictionary, autorità assoluta in questo campo, ha la gentilezza di informarmi che la parola chich è presente in Inghilterra in non so più quale testo scritto nel 1388 e rispunta poi fuori nel 1548 nella frase cicer may be named in English cich, or ciche pease, after the Frenche tongue (il cece in inglese può essere chiamato chich, o chiche pease, dalla lingua francese).
Visto che è venuto fuori il francese, la parola chiche, che si pronuncia ʃiʃ, (ovvero scish) è abbastanza comune, ma in un senso molto diverso. La si usa come risposta a qualcuno che dice “scommettiamo che non saresti capace di …?” ed è quindi traducibile con “scommettiamo!” La si può anche usare nell'espressione tu n'es pas chiche (non sei chiche), che vuol dire non hai il coraggio (di fare ciò di cui si sta parlando). È vero che significha anche misero, avaro, meschino, o scarso, come me lo indica il dizionario Larousse, ma in quel senso viene ormai usata molto poco.
Quanto alla versione americana, garbanzo bean viene direttamente dallo spagnolo medio garbanço, già presente nel 1565, che a sua volta deriva da algarroba, ovvero dall'antico arvanço, che deriverebbe dal gotico arwaits, che deriverebbe dal protogermanico arwīts, che avrebbe la stessa radice del latino ervum, che come tutti sappiamo si traduce in italiano con veccia, che è poi il nome regionale che viene dato qua e là a varie leguminose selvatiche dei generi Lathyrus e Lotus. E vista la fatica fatta per scrivere l'ultima frase, mo' mi riposo un momento.

Fatto.
A questo punto devo confessarti che mi ritrovo con una serie impressionante di pagine aperte sul mio navigatore e che non mi ricordo più come sono arrivato ad alcune di loro. Trovo per esempio il dizionario spagnolo-italiano aperto alla parola guisante, che pare voglia dire pisello e che è anche omonima di quell'algarroba che voleva dire carruba. Trovo la pagina che Wikipedia dedica al Capitulare de villis, un decreto emanato negli ultimi anni del regno di Carlo Magno, verso la fine dell'VIII secolo, per disciplinare le attività rurali, agricole e commerciali delle aziende agricole dell'impero o ville. Trovo un pagina di Google Maps nella quale appare il paesino di Dimina, nella Tessaglia greca. Trovo una pagina sulla quale posso iscrivermi a un corso di sami, lingua della Lapponia. Trovo la pagina che l'Enciclopedi Treccani dedica a Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, poeta nato a Firenze da un legnaiuolo, Giovanni, e da una tessitrice, Antonia, nel 1404. Premettendo che di mestiere il Burchiello faceva il barbiere, la Treccani mi dice che il suo soprannome viene dai versi alla "burchia", genere di poesia comico-realistica che ebbe nel barbiere fiorentino, se non l'inventore, certo uno dei più brillanti creatori e divulgatori, tanto che dal genere stesso, secondo A. F. Grazzini detto il Lasca, curatore di una edizione dei sonetti di D. nel 1552, derivò il soprannome di Burchiello.
E vedendo queste pagine godo come un grillo. E godo ancora di più quando mi accorgo che cliccando arbitrariamente sul terzo link che ognuna delle pagine citate mi offre, arrivo sull'aggettivo spagnolo guisado, che vuol dire in umido, sulla lista degli avvenimenti e dei personaggi importanti dell'VIII secolo, sul sito del Museo delle Tegole e dei Mattoni della città di Volos, su un altro sito che mi parla di una lingua parlata solo da 300 finlandesi e sulla pagina che la Treccani dedica a Siena. E godo ancora di più dicendomi che a questo mondo tutto è legato a tutto e che se almeno internet servisse a farlo capire a un po' più di gente, magari il mondo si metterebbe ad andare un po' meglio. Ma poi mi dico anche che quando mi metto a pensare cose così mi sento un po' ridicolo e a questo punto ti lascio perché prima di partire alla ricerca di poesie del Burchiello sento il bisogno di farmi un buon caffè.

No, aspetta, dimenticavo una cosa. Visto che ho parlato di ceci, ci tenevo a regalarti una chicca poco conosciuta, un breve testo di Italo Calvino pubblicato a Parigi dalla Bibliothèque Oulipienne, credo nel '75. Si tratta, come lo spiega lo stesso autore, di
un brevissimo testo narrativo la cui chiave viene data in fondo: [...] [il testo] equivale semanticamente a un altro testo di poche sillabe che a sua volta equivale foneticamente alla successione d'una consonante e delle cinque vocali come nei sillabari: BA-BE-BI-BO-BU, CA-CE-CI-CO-CU, DA-DE-DI, DO-DU, e così via per tutte le consonanti dell'alfabeto.
Se la spiegazione ti pare complicata, non temere: il testo vero e proprio non lo è:

CIA-CE-CI-CIO-CIU
L'istituzione delle Comuni, nella Cina di Mao, si scontrò agli inizi contro gravi difficoltà. La distribuzione dei generi alimentari avveniva in modo irregolare e i magazzini di vendita al pubblico restavano talora completamente sprovvisti. Poteva succedere che una massaia che chiedeva allo spaccio la sua razione di legumi si sentisse rispondere che le scorte erano finite e che nel negozio vuoto non restava che il ritratto del primo ministro appeso al muro.
Ci ha ceci?
Ci ho Ciu.

Vabbè, se non sapevi che Ciù En-lai è stato a lungo primo ministro della Cina maoista, allora sallo!