mercoledì 31 gennaio 2018

Vonnegut Forever


Ho deciso di rileggermi un po' di Vonnegut. Credo che sia una saggia decisione. Ho deciso di incominciare da quello che in italiano è stato tradotto con il brutto titolo di Ghiaccio-nove. In versione originale s'intitola Cat's Cradle, cioè…
Un momento. Qui bisogna essere precisi. Se la traduzione letterale di cat's cradle in italiano è culla di gatto, quella corretta è ripiglìno. Attenzione però: se dico ripiglìno non lo faccio in riferimento a quel gioco rinascimentale che consisteva nel tirare in aria noccioli, o monete, o sassi cercando poi di riprenderli con il dorso della mano, bensì a un altro gioco, del quale la culla è solo una delle figure possibili.
Ma allora, se il ripiglino non è quel gioco rinascimentale che consisteva nel tirare in aria noccioli, o monete, o sassi cercando poi di riprenderli con il dorso della mano, cosa diavolo è?, mi chiederai. Ah, lo sapevo. Anzi lo speravo. Speravo di non essere l'unico a ignorare l'esistenza di quell'altro ripiglino. Grazie.
Chi sapeva benissimo cosa sia il ripiglino che ci interessa qui è Wikipedia, che gentilmente me lo ha spiegato:
Il ripiglino, giocato con un filo, viene fatto da due o più persone usando la mani ed una cordicella. Consiste nel formare figure intrecciando a turno la cordicella intorno alle proprie dita.
Ciascuno dei partecipanti "ripiglia" il filo dalle mani del precedente ottenendo un nuovo intreccio; vi sono figure conosciute che hanno un nome (culla, materasso o graticola, candele) e che si ottengono per mezzo di mosse definite. In genere, si inizia dalla culla.
Ah, la culla! Pare che la culla sia la figura più semplice del ripiglino, la prima che si impara. Tant'è che cercando su altri siti ho visto che culla del gatto è un altro nome del ripiglino. Il che ci riporta a Cat's Cradle. Che è un libro bellissimo. E infatti parla del bokononesimo, l'unica religione il cui libro sacro incomincia con una frase che dovrebbe essere l'incipit di tutti i libri sacri del mondo: All of the true things that I am about to tell you are shameless lies, ovvero “Tutte le cose vere che sto per dirvi sono spudorate bugie”.
Cat's Cradle incomincia invece con tre parole che ci ricordano immediatamente Moby Dick: ma laddove Melville iniziava da Call me Ishmael (Chiamatemi Ismaele), Vonnegut inizia con Call me Jonah. My parents did, or nearly did. They called me John (Chiamatemi Giona. I miei genitori l'hanno fatto, o quasi. Mi hanno chiamato John). Il che è un inizio meraviglioso.
Ma posso fare una digressione? Dai, dimmi di sì! Grazie.
Farò una digressione per tornare un istante su quel Call me Jonah che per qualsiasi statunitense che abbia frequentato la scuola dell'obbligo è un po' come Ei fu. Siccome immobile, oppure Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate per noi.
Di solito Call me Ishmael è tradotto come l'ho fatto io, cioè chiamatemi Ismaele. Ma quella traduzione è tanto letterale quanto inesatta. In realtà se un americano ti chiede come ti chiami e tu gli rispondi Call me Pinco Pallino (che se ti fa piacere puoi anche pronunciare pinko pellàino), quello capisce due cose: 1) che non vuoi dirgli come ti chiami e 2) che di sicuro non ti chiami Pinco Pallino. Per cui la traduzione giusta di Call me Ishmael dovrebbe essere “Chiamatemi pure Ismaele”, o “Potete chiamarmi Ismaele”, o qualsiasi altra formula che sia meno sgarbata di “Come mi chiamo sono cazzi miei, voi tutt'al più potete chiamarmi Ismaele, sennò fate pure come il Baglioni e andate fuori dai coglioni”.
E dopo questa interessantissima digressione torniamo a Vonnegut.
Cat's Cradle è uscito nel 1963, io l'ho letto una decina d'anni dopo. Nel giro di meno di un mese avevo letto anche i suoi cinque altri romanzi già pubblicati. Poi, negli anni seguenti, man mano che uscivano, ho letto gli altri otto, più vari libri di racconti e cazzeggi vari. Qualcuno devo averlo perso, o prestato a una di quelle persone che mi fanno rimpiangere che Dio non esista, visto che se esistesse lo pregherei tutti i giorni di stramaledire quei fetenti che non restituiscono i libri prestati e di scaraventarli in fondo al muscolo sfintere anale esterno di Belzebù.
Aggiungerò soltanto che tra i personaggi importanti di Cat's Cradle ci sono Felix Hoenikker, padre della bomba atomica, una bellissima ragazza che di nome fa Mona (e di cognome Aamons Monzano), e naturalmente Bokonon, fondatore del Bokononesimo, nato Lionel Boyd Johnson ed ex-studente della London School of Economics.
Sul retro della prima edizione tascabile di Cat's Cradle c'era scritto:
Cat's Cradle tratta di scienziati atomici, di brutti americani, di stupende regine del sesso, di nani vendicatori, di dittatori caraibici, di becchini, di un modo nuovo di fare l'amore, di ghiaccio-nove, di Bokononesimo, della fine del mondo.
Detto questo, se non hai ancora letto Vonnegut e non intendi leggerlo… Mah...

domenica 21 gennaio 2018

Ma che bei musei!


Visto che per una cinquantina d'anni mi sono ostinato a fare il teatrante non posso dire che la domenica sia mai stata per me molto diversa dagli altri giorni della settimana. Adesso però, adesso che come un qualsiasi pensionato meno un'esistenza molto più regolare, so che la domenica è un giorno diverso dagli altri perché il bar nel quale vado ogni mattina a prendere il mio caffè è chiuso. Ecco allora che devo incamminarmi verso la piazza per andare al Caffè Garibaldi, che è sempre aperto, anche il giorno di Natale, anche a Ferragosto. Naturalmente prima passo da un'edicola, visto che un caffè del mattino senza giornale è come una Sacher senza marmellata, un'automobile senza carburante, o un galantuomo che esce di casa senza cappello in testa: una cosa triste e inutile.
Oltre tutto, la domenica mattina in edicola non trovo solo il mio giornale, ma anche il suo supplemento settimanale, dedicato ecumenicamente, ancorché un po' pomposamente, a dibattito delle idee, nuovi linguaggi, arte, inchieste e già che ci siamo pure racconti. Il che basta a farti capire che quel supplemento settimanale può parlare di ciò che vuole, visto che tutto può entrare in quelle vaghe categorie.
Ora, stamattina me ne stavo seduto all'aperto grazie a qualche raggio di quel Sole così assente nelle ultime settimane, quando un titolo a piena pagina, la 27, ha immediatamente attirato la mia attenzione: I 100 musei più bizzarri.
Devi sapere che da decenni coltivo un sogno: procurarmi una barca di soldi (che sia vincendo alla lotteria, svaligiando una banca, salvando la vita del figlio dell'emiro del Kuwait, o trovando per strada una valigia piena di biglietti da 100€, non importa) e poi spenderli andandomene in giro per il mondo a vedere musei. Alcuni, bellissimissimi, ho già avuto la fortuna di vederli, dal Louvre al Prado, dal Metropolitan all'Ermitage e dal Museo di Antropologia di Città del Messico all'Indian Museum di Calcutta — uno dei miei preferiti. Ma vorrei vederne molti altri. E poi non si tratta solo di andare a visitare musei più o meno famosi, ma magari di andare a Cleveland per vedere quel determinato quadro, o a Rio de Janeiro per quella particolare scultura.
Senonché l'articolo che ho letto poco fa ha cambiato tutti i miei progetti. Come non desiderare ormai ardentemente e imperiosamente di partire prima di tutto per Altadena, nella Contea di Los Angeles, per visitare il Bunny Museum, dove per otto miseri dollari, che in questo momento valgono poco più di 6,50€, puoi vedere migliaia di oggetti legati ai conigli? Oppure per la ridente Petra Jaya, nella parte malese dell'Isola del Borneo, per vedere il Kuching Cat Museum, dove sono esposti più di 4.000 oggetti dedicati ai gatti? O magari per le vicinanze del Parco Te Urewera, sull'isola di Te Ika-a-Māui, che è poi quella che i Neozelandesi di origine occidentale chiamano semplicemente Isola del Nord, per trovare il Beer Can Museum (Museo delle lattine di birra) e giudicare di persona se è meglio o peggio del suo omonimo Beer Can Museum situato ai bordi del Parco Massasoit, nel Massachusetts (Stato del quale, malgrado l'abbia fatto cento volte, devo sempre verificare l'ortografia perché non mi ricordo mai dov'è la doppia s)? O ancora per Laugavegur 116, indirizzo di Reykjavik (altra indispensabile verifica ortografica) dove è situato il promettentissimo Hið Íslenzka Reðasafn, ovvero Museo Fallologico Islandese (vedi foto), il cui sito internet si lamenta giustamente del fatto che la fallologia sia una scienza antica che, fino ad anni recenti, ha ricevuto un'attenzione assai limitata in Islanda, ma che trova nella mostra permanente di 209 peni e parti di pene, in particolare di sedici differenti specie di cetacei, un campione estratto da un orso polare, trentasei pezzi provenienti da sette differenti specie di foche e trichechi, e centoquindici campioni originari di venti differenti tipi di mammiferi terrestri una giusta e troppo attesa rivalutazione?
Mi dirai che forse preferiresti farti 556 chilometri a nord di Stoccolma per finire, sulle rive del Golfo di Botnia, nel minuscolo paesino di Skeppsmalen, a una trentina di chilometri da Örnsköldsvik, dove è situato il Fiskevistet, letteralmente la Visita del Pesce, dedicato interamente all'aringa fermentata. A meno che la tua mente bacata non ti spinga verso la Renania-Palatinato, dove potrai chiedere anche solo a gesti a uno degli 846 abitanti di Neroth l'esatta ubicazione del Mausefallenmuseum, ovvero il Museo delle Trappole per Topi, che non mancherà di soddisfare la tua morbosa curiosità.
Comunque sia, sappi che apprezzo quel moto di riconoscenza che ti sta invadendo l'animo alla scoperta dell'esistenza di musei dei quali non osavi nemmeno sperare l'esistenza. E te ne sono grato.
Mo' però, scusa, ma è l'ora del mio secondo caffè.

martedì 16 gennaio 2018

Un inatteso 30%

Nel novembre scorso ero negli Stati Uniti, a casa di mia figlia. Un giorno è arrivato un pacchetto per me. L'ho aperto. All'interno c'era un tubetto di plastica con tanto di coperchio. Ho aperto anche quello. Poi ci ho sputato dentro più volte, l'ho richiuso e l'ho rispedito al mittente.
Ora non andare a pensare che io sia uno che se riceve una cosa sgradita ci sputa dentro e la rimanda indietro. In realtà mi ritengo abbastanza educato. Ma il fatto è che quel tubetto di plastica con tanto di coperchio me l'aveva spedito il National Geographic Project e che per riceverlo io avevo sborsato 99 dollari. E perché mai, mi chiederai, avevi mandato 99 dollari in cambio di un tubetto di plastica con tanto di coperchio al National Geographic Project che manco so cos'è? Beh, la ragione principale era stata che quel tubetto di plastica con tanto di coperchio era in saldo, visto che normalmente costa il doppio. Quanto al National Geographic Project, non ti stupirà apprendere che si tratta di un progetto della National Geographic, che permette a chi lo vuole di farsi fare un esame genetico che gli dirà da dove venivano i suoi antenati (esame genetico che esige una certa dose di sputacchio).
Mi dirai che spendere ancho solo 99$ per avere conferma del fatto che i tuoi antenati venivano tutti dalla zona etiopo-eritreo-somalo-sudano-kenyana è un po' come spendere 20€ in un libro di Fabio Volo per avere conferma del fatto che se c'è uno che non è capace di scrivere quello è lui. Ma in realtà le cose sono un po' più complicate. Tanto più se giudico a partire dai risultati di quell'esame genetico che mi sono arrivati proprio stamattina per e.mail.
La prima cosa che ho notato, non so nemmeno io bene se con piacere o con sconcerto, è che i miei geni indicano che io sono 0,2% più Uomo di Neanderthal della media dei Sapiens sapiens che se ne stanno a cazzeggiare nelle varie valli di lacrime di tutti quelli che hanno speso 99$, o più, per ottenere informazioni simili. E vorrei pregarti di cancellare immediatamente quello stupido sorrisetto che si è venuto a stampare su quella tua faccia che magari, chi lo sa?, è molto più neanderthaliana di quanto tu non lo sospetti. Ma andiamo avanti.
Che il 52% dei miei geni abbiano origini italiane e/o sudeuropee non mi stupisce, visto che tre dei miei quattro nonni erano italiani. Trovo però interessanti i commenti di Nat Geo a questo proposito:
Oggi questa origine indica un misto di agricoltori provenienti dal Medio Oriente e di migranti dall'Europa del Nord, discendenti a loro volta da popolazioni dell'Europa Centrale. Esistono forti connessioni con i Balcani e con l'Europa sud-orientale, il che rende il suo DNA transadriatico e perfino transmediterraneo, segnalando connessioni commerciali e politiche. Elementi di questa origine si riscontrano anche nell'Europa del Nord e in quella dell'Est, e anche al Sud, attraverso il Mediterraneo, fino alla Libia e ad altre regioni dell'Africa del Nord, ricordi genetici dell'espansione dell'impero romano verso sud.
Beh, mi piace abbastanza che questo 52% sia molto ibrido. E mi piace anche che Nat Geo si sia presa la briga di paragonarlo a due popolazioni di riferimento, i greci e i toscani. Dal paragone coi primi viene fuori che: 1) sono più sud-europeo io di Irene Papas e pure del patriarca ortodosso di Atene; 2) i greci non hanno traccia di DNA dell'Europa nord-occidentale, ma ne hanno un buon 19% che viene dall'Asia Minore e un 5% dalla diaspora ebrea. E qui mi fermo un attimo perché visto che Schuster è un cognome sia tedesco che ebreo mi sono sempre chiesto se dietro quel mio nonno paterno che veniva dalla Ruhr non ci fosse in realtà un'ascendenza ashkenazita. Beh, non c'è. Capitolo chiuso. Se sia una buona o una cattiva notizia non lo so. Ma so che quei 99$ li ho spesi bene.
Mi ha stupito vedere che il 10% di quello che sono viene dal mediterraneo occidentale, il che lascia supporre più o meno antichi incroci famigliari con qualche spagnolo, magari catalano, magari maiorchino, o, chissà, magari pure sardo nord-occidentale, come suggerito dalla macchia viola sulla cartina all'inizio di questo post.
Andando avanti, ecco un bel 7% di est europeo, che sembra coprire una zona che dalla Germania, attraverso la Polonia, arriva fino alla Bielorussia. Pare che quella sia la parte proveniente da popolazioni pre-agricole dell'Europa, varie migliaia di anni fa.
Detto questo, per ben il 30% sono figlio dell'Europa nord-occidentale, il che è una sorpresa tanto più grande che la macchia grigia sulla cartina è centrata sulla Scozia. Vuoi vedere che è per questo che amo i romanzi di Walter Scott, che trovo che Sean Connery sia stato l'unico vero Bond, che adoro il short bread, che ammiro profondamente Tilda Swinton e che il whisky torbato delle Ebridi (in particolare uno dell'isola di Islay) mi fa godere come un grillo? Che dici, devo comprarmi un kilt?
Per ora vado a farmi un caffè, poi si vedrà.

lunedì 1 gennaio 2018

Da Tristan a Gough


Oggi è il 1° gennaio. Come tutti i giorni stavo facendo colazione con sul tavolo il computer aperto. A un certo punto sulla mia pagina Facebook ho visto comparire la bella foto che ho messo qui sopra. Il paesino che vedi è Edinburgo dei Sette Mari, unico centro abitato di Tristan da Cunha.
Dell'isola di Tristan, il posto abitato più remoto del mondo, visto che dista 1200 km da Sant'Elena, 2400 dal Sudafrica e 3360 dal Sudamerica, ho già scritto in passato. Il posto mi affascina. So che non ci andrò mai, ma va bene così. Mi accontento di essere “amico” suo su Facebook e di ricevere così qualche notizia di tanto in tanto. E ogni volta è la stessa gioia, e ogni volta scatta lo stesso meccanismo che mi porta a cercare nuove immagini su YouTube. Anche stamattina.
A dire il vero, adesso che ho verificato la cronologia del mio navigatore, mi accorgo che prima ho cercato Tristan da Cunha su Wikipedia, probabilmente per verificare non so più cosa. In fondo alla pagina (su Wikipedia in inglese) ho scoperto l'esistenza di un cortometraggio intitolato 37°4 S, che è la latitudine dell'isola. A quanto pare si tratta di un short film about two teenagers who live on the island. Sono andato su YouTube, ma ho trovato solo un estratto di due minuti. Ma siccome alla fine dei due minuti stavo addentando una fetta di pane tostato con su burro e conserva di susine senza aggiunta di zucchero di Montepulciano, ho lasciato fare. E YouTube mi ha subito proposto altre immagini di Tristan e poi altre ancora. Così sono arrivato al filmino di una coppia di pensionati che avevano fatto una crociera “da Capo a Capo”, cioè da Capo Horn a Capo di Buona Speranza, fermandosi brevemente non solo a Tristan ma anche sulla vicina e disabitata isola di Nightingale. Disabitata, ma non da tutti, visto che ci sono caterve di uccelli di varie specie. Tra questi anche i Rockhopper, che ci ho messo un certo tempo a capire che in italiano sono i pinguini crestati, o eudipti, visto che non c'è nessun ponte tra la pagina Wikipedia dei Rockhoppers e una pagina italiana. Ma vabbè, almeno mi sono passato in rivista tutte le specie di pinguini, comprese quelle estinte, che è una cosa che può sempre servire.
Ma siamo precisi: scientificamente e tassonomicamente parlando, quello degli eudipti è un genere della famiglia degli sfeniscidi dell'ordine degli sfenisciformi della sottoclasse dei neorniti della classe degli uccelli e mi fermo qui perché chissenefrega di sapere che tutto questo fa parte del dominio degli eucarioti, vero?
Certo. Quello che conta è che gli eudipti si dividono in cinque specie: il saltarocce, il ciuffodorato, quello di Moseley, il beccogrosso, il robusto, il reale e il crestato maggiore. Ora ci tengo a sottolineare quanto sia importante, quando si tratta di pinguini — e di eudipti in particolare — avanzare coi piedi di piombo, visto che un esame superficiale delle specie precitate potrebbe spingerci a credere che la prima, cioè quella dei saltarocce, indica proprio i Rockhopper di cui sopra. E invece no, visto che i saltarocce vivono sulle isole Falkland, su quelle del Principe Edoardo, sulle Crozet, sulle Kerguelen, sulle eard, sulle Macquaire, sulle Campbell, sulle Auckland, sulle Antipodi, nonché su un certo numero di isolette dalle parti di Capo Horn, ma NON su Nightingale. Lì ci vivono i pinguini di Moseley, così chiamati in onore di Henry Nottidge Moseley, naturalista britannico che navigò in quelle remote parti del mondo a bordo dell'H.M.S. Challenger tra il 1872 e il 1876. È probabilmente vero, come ce lo fa notare una pagina del sito del Museo di Scienze Naturali della Louisiana, che benché questo nome non sia in uso presso gli ornitologi, lo si trova comunemente sul web in riferimento all'unica specie di pinguini di Tristan da Cunha, ma visto che noi non siamo ornitologi chissenefrega.
Ma non perdiamoci in divagazioni.

Un pinguino di Moseley

Una volta appurato che i pinguini del filmino dei due pensionati in crociera tra Capo Nord e Capo di Buona Speranza erano gli eudipti di Moseley e una volta ancora constatato che la pagina Wikipedia in inglese mi dava molte più informazioni di quella in italiano, mi sono concentrato sulla prima, scoprendo che la specie Mosely è divisa in due sottospecie, i Moseley del Nord e quelli del Sud, caratterizzate da differenze genetice, morfologice e vocali. Perbacco, mi sono detto. Ma ho subito scoperto che quelli di Nigtingale sono degli eudipti del Nord, che infatti vivono al 99% a Tristan da Cunha e all'isola di Gough.
All'isola di cosa??? Di Gough? Mai sentita nominare!

L'isola di Gough

Un semplice clic ed ecco le spiegazioni. Prima di chiamarsi Gough l'isola si chiamava Gonçalo Álvarez, in onore del navigatore portoghese che la scoprì mentre comandava una nave della piccola flotta di Francisco de Almeida. Poi si chiamò Diego Álvarez. Non che un altro Álvarez se la fosse appropriata; semplicemente qualche cartografo iberico aveva sintetizzato il nome di Gonçalo Álvarez, scrivendo su una carta isla de Go Álvarez, il che spinse un altro cartografo, inglese, a trasformare de Go in Diego, cosa che non ha nessuna importanza quando si parla di pinguini di Moseley, ma che meritava di essere segnalata.
È dunque solo in un secondo tempo che all'isola venne dato il suo nome attuale in onore di quel Charles Gough che la riscoprì nel '700.
Inutile dirti che sono subito andato a cercare notizie di Gough. L'isola non è completamente disabitata visto che, oltre al milione di topi e a un numero imprecisato di pinguini e di àlbatri, la sua stazione meteorologica ospita sempre tre meteorologi, un tecnico, un meccanico, un medico e qualche biologo, che se ne stanno lì per un anno intero, su uno sputacchio di isola rocciosa e piovosissima, in mezzo al nulla.

La stazione meteorologica di Gough

L'unico fatto degno di nota mai accaduto sull'isola è successo l'11 febbraio 2014. Un tecnico elettronico sudafricano, Johannes Adriaan Hoffman, morì nel suo letto. La causa della morte fu un soffocamento da cibo. Sì, lo so, andarsene a morire in mezzo al nulla ingozzandosi di biscotti secchi sotto le coperte non è un granché come modo di togliere il disturbo. Eppure è grazie a questa idiozia che il nome di Johannes Adriaan Hoffman ha fatto il giro del mondo. Meditiamo.
Beh, come inizio dell'anno non mi pare male, no?
Mò vado a farmi il mio caffè.