giovedì 25 dicembre 2014

Post natalizio


Alcuni anni fa ho incontrato Babbo Natale. A casa sua.
Sì, so dove abita Babbo Natale. A Rovaniemi, capitale della Lapponia finlandese. Tra la città(dina) e l'aeroporto c'è il Circolo Polare Artico e a cavallo del Circolo Polare Artico c'è la casa di Babbo Natale, con tutt'intorno un centro commerciale che vende solo cose natalizie.
Come tutti sanno, il vero nome di Babbo Natale è San Nicola. E il vero San Nicola, cioè quello che ho incontrato io, non si veste certo come l'idiota barbuto che fa la pubblicità alla Coca-Cola. Il vero San Nicola si veste da vecchio contadino finlandese, con pantaloni e maglione grigio, grossi calzettoni e gigantesche pantofole, almeno quando è a casa sua. Che, non lo ripeto per vantarmi, è dove l'ho incontrato io. La casa di San Nicola è molto grande, anche perché una parte è occupata dal meccanismo che fa girare il mondo. Neanch'io lo sapevo prima di incontrare Babbo Natale — non so se l'ho già detto, ma l'ho proprio incontrato personalmente di persona — ma durante la notte di Natale lui rallenta sensibilmente il meccanismo che fa girare il mondo in modo da avere più tempo a disposizione per portare i regali ai bambini buoni. (Vomitìno).
In casa di Babbo Natale, anzi proprio nella stanza dove mi ha ricevuto, c'è un elfo sopra una piattaforma, con una grossa macchina fotografica e un computer. Mentre tu parli con il padrone di casa l'elfo ti fa una foto che altri elfi stampano rapidamente e poi cercano di venderti a un prezzo assurdo quando esci.
Detto questo, e nonostante la cosa di primo acchito sembri non c'entrare per nulla, fino a stamattina ignoravo l'esistenza della città di Yiwu. La città di Yiwu si trova nella provincia dello Zhejiang, 300 chilometri a sud di Shanghai. Ha 1.200.000 abitanti (almeno per chi come me rifiuta di scrivere 1.2 milioni di abitanti, che è un'insopportabile americanata), una gran parte dei quali si guadagna da vivere fabbricando alberi di Natale di plastica, vestiti da idiota che fa la pubblicità alla Coca-Cola, palle di platica per l'albero di Natale, renne di plastica di ogni genere, tipo e dimensione, finta neve, finto muschio da appendere sopra la porta e altri orpelli indispensabili alla celebrazione della nascita di Gesù Cristo Redentore e Salvatore. 60% delle decorazioni natalizie mondiali sono fabbricate a Yiwu. Statisticamente parlando, se il tuo albero di Natale ha dieci palle colorate, almeno sei vengono da Yiwu. Per essere più precisi, vengono dal mercato all'ingrosso di Yiwu, che si estende su 4 chilometri quadrati e che comprende 62.000 stand, tutti della rigorosamente identica superficie di 2 metri e mezzo per 2 metri e mezzo.
Il mercato è diviso in 5 distretti, anche loro rigorosamente identici. Il giornalista della BBC Tim Maughan l'ha visitato ed ecco cosa ne dice:
"[Il mercato] riceve incredibilmente 40.000 visitatori al giorno, 5.000 dei quali sono compratori stranieri. Ma queste sono solo cifre. All'interno, sembra di essere in un centro commerciale decrepito, ma devi incominciare a camminare per renderti conto delle dimensioni. Il complesso è diviso in cinque distretti. Io entro dal Distretto 1 e mi trovo in un corridoio pieno di stand nei quali sono presentate solo matite e penne. Giro l'angolo, cammino per un quarto d'ora. Vedo solo matite e penne. Poi arrivo a una scala mobile in panne e cambio piano. Qui non ci sono più matite e penne, solo astucci per occhiali. Cambio nuovamente piano e trovo solo fiori di plastica. Liam Young, l'organizzatore del nostro viaggio, mi dice che durante l'ultima visita organizzata alcuni studenti si erano messi in testa di visitare tutti e cinque i distretti e di vedere tutti i prodotti. Otto ore dopo hanno rinunciato. Ma c'è una cosa nella quale Yiwu eccelle: il Natale. Scordatevi il Polo Nord, scordatevi il laboratorio di Babbo Natale. Nel 2012 Yiwu e il circondario avevano, secondo la Yiwu Christmas Products Association, 750 ditte che producevano esclusivamente prodotti natalizi."
Insomma, un bel posticino.
Ovviamente se ne parlo è perché oggi è Natale e mi sono detto che qualche immagine di Yiwu sarebbe stato un bel regalo. Eccole qui:









domenica 23 novembre 2014

Il poeta della settimana: Omero

Alle Medie, come tutti, ho studiato l'Iliade. Quell'anno e solo quell'anno ho avuto un insegnante di lettere straordinario. Era uno del Sud, un quarantino, forse calabrese, che parlava con un forte accento. Aveva una specie di modo distaccato di insegnare, sempre al limite dell'ironia e soprattutto dell'autoironia. Contrariamente agli altri insegnanti dava l'impressione di fare il suo lavoro per noi, più che per lo stipendio di fine mese.
È con lui che ho scoperto Omero ed è probabilmente da lì che è nato, o almeno si è strutturato il mio amore per le epopee classiche. Se non ci fosse stato lui probabilmente molto più tardi non avrei amato il Mahabharata indiano, lo Shanameh persiano e l'epopea mandinga di Sunjata.
Di Omero mi piacevano tantissimo le similitudini, che il professore si dilettava a farci commentare. "Perché piangi, o Patroclo, come una bimba, / piccola che corre dalla madre per essere presa in braccio, / le prende la veste, e non la lascia camminare, / ma piangendo la guarda dal basso, perché la prenda in braccio: / a lei assomigli, Patroclo, versando tenere lacrime." Oppure "Come quando un uomo, improvviso scorgendo un serpente, indietreggia / in una balza montana, tremito gli avvolge le gambe, / si allontana e livido diventa il suo viso, / così di nuovo si nascose nel folto dei Troiani gloriosi…"
Oltre alle similitudini però c'erano le liste, due in particolare: la descrizione dello scudo di Achille nel XVIII canto e il catalogo delle navi achee nel II. È questo che ti propongo di (ri)leggere oggi. In realtà adoro tutta l'Iliade, ma un post con il testo integrale sarebbe stato davvero troppo lungo.

Il catalogo delle navi - Iliade Canto II 493-760
[…]
Ma dirò i capi di navi e tutte le navi.
   Dei Beoti Penèleo e Leito erano a capo,
e Arcesílao e Clonio e Protoènore,
Iría abitavano alcuni ed Aulide petrosa,
e Scheno e Scolo, e il ricco di vette Eteone,
e Tespia e Graia e Micalesso spaziosa;
altri abitavano intorno ad Arma, a Ilisio, a Eritra;
avevano altri Eleone ed Ile e Peteone,
Ocalea e Medeone, borgo ben costruito,
Cope, Eútresi e Tisbe dalle molte colombe;
altri Coronea e Alíarto erbosa,
e altri avevan Platea, e abitavan Gli santo,
e avevano Ipotebe, borgo ben costruito,
e Onchesto sacra, recinto nobile di Poseidone;
altri avevano Arne ricca di grappoli, e Mídea
e Nisa divina e la lontana Antedone;
vennero di costoro cinquanta navi, in ognuna
centoventi giovani dei Beoti eran saliti.
    Ma quelli che Aspledone e Orcòmeno Minio abitavano,
di questi erano a capo Ascàlafo e Iàlmeno, figli d’Ares,
che nel palazzo d’Àttore Azeíde, al piano di sopra,
generò Astioche, vergine degna d’onore,
al forte Ares; ch’egli le giacque accanto furtivo.
Per loro trenta navi concave s’allineavano.
    E dei Focesi Schedío ed Epístrofo erano a capo,
figli d’Ifito magnanimo Naubolíde;
questi avevan Cipàrisso e Pito petrosa,
Crisa divina e Daulíde e Panopeo,
e ad Anemoria vivevano e a Iàmpoli,
e presso il fiume Cèfiso divino abitavano,
e avevano Lílaia, sulla sorgente del Cèfiso;
costoro quaranta navi nere seguivano,
e i capi ordinavan le file dei Focesi attivamente;
accanto ai Beoti, a destra, stavano armati.
    Dei Locri era a capo l’Oileo, il rapido Aiace,
meno grande, non tanto grande quanto l’Aiace Telamonio,
molto meno grande, piccolo anzi e con cotta di lino,
ma con l’asta vinceva tutti gli Elleni e gli Achei.
Questi abitavano Cino e Oponto e Callíaro,
e Bessa e Scarfe, e l’amabile Augea,
e Tarfe e Tronio, sulla corrente del Boagrio.
Costui quaranta navi nere seguivano,
dei Locri, che vivono in faccia alla sacra Eubea.
    Quelli che avevan l’Eubea, gli Abanti che spirano furia,
e Calcíde ed Eretria e Istíea ricca di grappoli,
e Cerinto marina e l’alta città di Dione,
e quelli che avevano Càristo, e abitavano Stira,
di questi era a capo Elefènore, rampollo d’Ares,
figlio di Calcodonte, magnanimo principe degli Abanti;
a lui obbedivan gli Abanti rapidi, chiomati alla nuca,
armati di lancia, bramosi coi lunghi frassini
di rompere la corazza intorno al petto ai nemici.
Costui quaranta navi nere seguivano.
    E quelli che avevano Atene, città ben costruita,
popolo del magnanimo Eretteo, che Atena un tempo
allevò, la figlia di Zeus – lo generò la terra feconda –
e pose in Atene, dentro il suo ricco tempio;
e lui qui con tori e agnelli propiziano
i giovani degli Ateniesi al tornare dell’anno:
di questi era a capo il figlio di Peteòo, Menesteo:
mai sulla terra nacque uomo simile
per ordinare cavalli e uomini armati di scudi.
Soltanto Nestore entrava in gara, poi ch’era più vecchio.
Costui cinquanta navi nere seguivano.
    Aiace da Salamina guidava dodici navi;
e li dispose ordinandoli dov’erano le falangi ateniesi.
    Quelli che avevano Argo e Tirinto murata,
Ermione e Asine sul golfo profondo,
Trezene, Eione, Epídauro piantata a vigneti,
e avevano Egina e Màsete, giovani degli Achei,
di questi era a capo Diomede, potente nel grido,
e Stènelo, caro figlio di Capaneo glorioso,
terzo Euríalo andava con essi, mortale pari agli dèi,
figlio di Mecisteo, del re Talaonide;
ma su tutti imperava Diomede, potente nel grido.
Costoro ottanta navi nere seguivano.
    Quelli che avevan Micene, città ben costruita,
e l’abbondante Corinto, e il ben costruito Cleone,
o che abitavano Ornea e l’amabile Aretirea,
e Sicione, là dove Adrasto prima regnò,
e quelli che Iperesía e l’alta Gonòessa
avevano e Pellene, e abitavano intorno ad Ègio,
e in tutto quanto l’Egialo, e intorno all’ampia Elíce,
cento navi di questi guidava il potente Agamennone,
figlio d’Atreo; con lui moltissime e nobili
schiere venivano; egli era vestito di bronzo abbagliante,
e andava superbo, tra tutti gli eroi primeggiava,
perché era il più forte, guidava moltissime schiere.
    Quelli che avevano Lacedèmone concava, avvallata,
e Fari e Sparta e Messe ricca di colombe,
e abitavano Brisea e l’amabile Augea,
che avevano Amicla ed Elo, borgo sulla riva del mare,
che avevano Laa e che abitavano Ètilo,
di questi guidava il fratello, Menelao potente nel grido,
sessanta navi; a parte stavano armati;
egli in mezzo moveva, fidando nel suo coraggio,
e li spingeva alla guerra; moltissimo ardeva in cuore
di vendicare d’Elena le ribellioni e i gemiti.
    E quelli che Pilo abitavano e l’amabile Arene,
e Trio, guado dell’Alfeo, ed Epi ben costruita,
e Ciparissento ed Anfigènia abitavano,
e Pteleo ed Elo e Dorio, là dove le Muse
fattesi avanti al tracio Tàmiri tolsero il canto,
mentre veniva da Ecalia, da Euríto Ecaleo,
e si fidava orgoglioso di vincere, anche se esse,
le Muse cantassero, figlie di Zeus egíoco!
Ma esse adirate lo resero cieco e il canto
divino gli tolsero, fecero sí che scordasse la cetra;
di questi era a capo il gerenio cavaliere Nestore.
Novanta concave navi egli metteva in linea.
    E quelli che avevan l’Arcadia, ai piedi dell’alto Cillene,
presso la tomba d’Epíto, dove gli uomini lottano corpo a corpo,
quelli che abitavano Fèneo e Orcòmeno ricca di pecore,
e Ripe e Stratíe ed Enispe ventosa,
e avevano Tegea e l’amabile Mantinea,
ed avevano Stínfalo e abitavano Parrasia,
di questi guidava il figlio d’Anceo, il potente Agapènore,
sessanta navi; e in ogni nave molti
eroi arcadi eran saliti, abili in guerra.
E donò loro, il sire di genti Agamennone,
le navi buoni scalmi, da andar sul cupo mare,
il figlio d’Atreo, ché quelli non sanno di cose marine.
    Quelli poi che abitavano Buprasio e l’Èlide divina,
fin là dove Irmíne e Mírsino lontana
e la rupe Olenia la chiudono e Alesio,
di questi i capi eran quattro, seguivano ognuno dieci
navi veloci, e molti Epei vi salirono.
Erano dunque a capo degli uni Anfímaco e Talpio,
uno figlio di Ctèato, l’altro d’Euríto, Attoridi;
degli altri erano capo il forte Diore Amarincíde,
degli ultimi Polísseno simile a un dio,
figliuolo d’Agàstene, signore Augeiade.
    Ma quelli di Dulichio e delle sacre Echinadi
isole che son di faccia all’Èlide di là dal mare,
di questi era a capo Mege, simile ad Ares,
Fileíde, che il cavaliere Fileo generò, caro a Zeus,
il quale un tempo emigrò a Dulichio, irato col padre.
Questo quaranta navi nere seguivano.
    Odisseo conduceva i Cefalleni magnanimi,
quelli che avevan Itaca e il Nèrito, sussurro di fronde:
e abitavano Crocílea e l’aspra Egílipa,
e avevan Zacinto e abitavano Samo,
e possedevan le coste e le rive di faccia abitavano;
di questi era a capo Odisseo, simile a Zeus per saggezza.
Andavan con esso dodici navi dai fianchi vermigli.
    Degli Etòli era a capo Tòante, figlio d’Andrèmone,
e quelli abitavano Pleurone ed Òleno e Pilene,
Calcíde in riva al mare e Calidone petrosa;
ché non vivevano più i figli d’Oineo magnanimo,
e neppur esso viveva più, era morto, il biondo Melèagro;
a lui dunque spettava regnare su tutti gli Etòli.
Quaranta navi lo seguivano.
    Sui Cretesi comandava Idomeneo buono con l’asta,
e quelli avevano Cnosso e Gòrtina cinta di mura,
Licto, Míleto e Lícasto bianca,
e Festo e Rítio, città ben popolate,
altri abitavano Creta dalle cento città;
su questi dunque regnava Idomeneo buono con l’asta
e Merione pari a Enialio massacratore.
Costoro ottanta navi nere seguivano.
    Tlepòlemo, il figlio d’Eracle nobile e grande,
guidava da Rodi nove navi di Rodii superbi,
i quali abitavano a Rodi, divisi in tre sedi,
Lindo e Iàliso e Càmiro bianca.
Su questi regnava Tlepòlemo buono con l’asta,
che Astiòchea generò alla possanza d’Eracle;
la portò via da Efira, via dal fiume Sellèento,
dopo che molte città di pupilli di Zeus ebbe atterrato.
Tlepòlemo, dunque, come crebbe nel solido palazzo,
ecco uccide lo zio del padre suo,
già vecchio ormai, Licimnio, rampollo d’Ares.
E presto costruì navi, e raccolto un esercito grande,
andò fuggendo sul mare; ché lo minacciavano gli altri
figliuoli e nipoti della possanza d’Eracle.
Ma a Rodi egli giunse errando, soffrendo dolori;
e qui in tre sedi si stanziarono, per tribù; e furono amati
da Zeus, che regna sui numi e sugli uomini:
a loro divina opulenza versava il Cronide.
    Nirèo pure guidava da Sime tre navi ben fatte,
Nirèo, figlio d’Aglaia e del sire Caropo,
Nirèo, l’uomo più bello che venne sotto Ilio,
fra tutti gli altri Danai, dopo il Pelide perfetto.
Debole egli era però; lo seguiva piccolo esercito.
    Quelli che avevano Nísiro e Cràpato e Caso
e Cos, città d’Eurípilo, e l’isole Calidne,
sopra questi regnavano Fídippo e Àntifo,
figli ambedue del re Tessalo, un Eraclide.
Essi mettevano in linea trenta concave navi.
    Ora dirò anche quelli che stavano in Argo Pelasga,
e quelli che Alo ed Alope, o che abitavan Trachine,
e che avevano Ftia, e l’Ellade belle donne,
che Mirmídoni erano detti ed Èlleni e Achei;
di costoro guidava cinquanta navi Achille.
Ma questi della guerra odiosa non si davan pensiero,
non v’era infatti chi li ordinasse in file;
ché tra le navi Achille divino piede veloce, sedeva,
irato per la giovane Briseide dai bei capelli,
che s’era presa a Lirnesso, dopo aver tanto sudato
nell’abbatter Lirnesso e le mura di Tebe;
e Minete abbatté, ed Epístrofo, lance robuste,
i figliuoli d’Eveno, del sire Selepíade;
a causa di lei sedeva irato; ma presto doveva levarsi!
    E quelli che avevan Fílache e Píraso fiorita,
recinto sacro di Demetra, e Itona madre di greggi,
e Antrona marina, e Pteleo letto d’erba,
su questi regnò Protesílao bellicoso,
sin che fu vivo, ma stava già allora sotto la terra nera;
di lui rimaneva a Fílache la sposa, graffiata in viso,
e un palazzo incompiuto; l’uccise un eroe dardano,
che dalla nave balzava, primissimo fra gli Achei.
Certo non erano senza capo, però rimpiangevano il primo:
li ordinava Podarche rampollo d’Ares,
figlio d’Ificlo ricco di pecore, Filachíde,
fratello germano di Protesílao magnanimo,
più giovane d’anni; l’altro era il primo ed era un eroe
più forte, Protesílao guerriero; così l’esercito
non mancava di guida, ma rimpiangeva il più forte.
Costui quaranta navi nere seguivano.
    Ma quelli che abitavano Fere, sulla palude Boibeide,
e Boibe e Glafire e Iaolco ben costruita,
di questi guidava il caro figlio d’Admeto undici navi,
Èumelo, che generò da Admeto una donna divina,
Alcesti, bellissima tra le figliuole di Pelia.
    E quelli che abitavano Metone e Taumacia,
e avevano Melíbea e l’aspra Olizone,
di questi guidava Filottete esperto dell’arco
sette navi; e cinquanta rematori in ognuna
salivano, esperti a combattere gagliardamente con l’arco.
Ma quello giaceva in un’isola, soffrendo violenti dolori,
in Lemno divina, dove lo lasciarono i figli degli Achei,
che spasimava per piaga maligna di serpe funesto.
Egli giaceva laggiù straziato, ma presto dovevano ricordarsi
gli Argivi, presso le navi, del sire Filottete.
Certo quelli non erano senza capo, ma rimpiangevano il primo,
li ordinava Mèdonte, il figlio bastardo d’Oileo,
che Rene generò da Oileo distruttore di rocche.
    Quelli che avevano Tricca e Itome dirupata,
e che avevano Ecalia, città d’Euríto Ecaleo,
su questi regnavano i due figliuoli d’Asclepio,
i buoni due guaritori, Podalirio e Macàone.
Essi mettevano in linea trenta concave navi.
    Quelli che avevano Ormenio e la sorgente Ipèrea,
che avevano Asterio e le cime bianche del Titano,
d’essi era capo Eurípilo, lo splendido figlio di Evèmone.
Quaranta navi nere lo seguivano.
    Quelli che avevano Àrgissa e abitavano Girtone,
Orte ed Elone, e la città d’Oloòssono bianca,
su questi regnava il forte guerriero Polipete,
figlio di Pirítoo, che Zeus immortale generò.
Lui da Pirítoo generò Ippodamia gloriosa,
il giorno che fece vendetta dei Centauri pelosi,
li cacciò dal Pelio, li spinse verso Etíci;
non da solo, con esso Leonteo rampollo d’Ares,
figlio dell’animoso Corono Ceneíde;
questi quaranta navi nere seguivano.
    Gunèo conduceva ventidue navi da Cifo,
e lo seguivano gli Enieni e i forti guerrieri Perebi,
quelli che intorno a Dodona inclemente si fecero case,
quelli che intorno all’amabile Titaresio coltivavano i campi,
che nel Peneo getta l’acque, belle correnti,
ma non si mischia con Peneo flutto d’argento,
gli scorre di sopra, a fior d’acqua, come olio,
perché è un braccio di Stige, l’acqua tremenda del giuramento.
    Dei Magneti era a capo Pròtoo, figliuolo di Tentredòne,
essi intorno al Peneo e al Pelio sussurro di fronde
abitavano, e li guidava Pròtoo veloce;
quaranta navi nere lo seguivano.
    Questi erano i capi e i guidatori dei Danai.
[…]

domenica 16 novembre 2014

Il poeta della settimana: Thomas



Andando avanti con la mia serie dei poeti della settimana mi accorgo che le scelte che faccio mi vengono naturali, quasi come se mi fosse impossibile farne altre.

A Dylan Thomas ci sono arrivato nel '74, attraverso Bob Dylan, che, nato Robert Zimmermann, aveva scelto il nome del poeta gallese come cognome d'arte.

Ho scelto una poesia del '35 perché è quella che fin dalla prima lettura mi aveva colpito di più. È chiara e al tempo stesso misteriosa. Ha la magia delle cose eterne, liberate dalle catene del tempo, come diceva Jarry. Tra cento, duecento, mille anni, sarà ancora leggibile come oggi, senza nessuno sforzo.

La poesia parla di guerra e di pace, ma parla soprattutto di morte e d'inganno e lo fa  con parole quasi messianiche. La trovo splendida.



La mano che firmò il trattato



La mano che firmò il trattato abbatté una città;
Cinque dita sovrane tassarono il respiro,
Radoppiarono il globo dei morti e dimezzarono un paese;
Quei cinque re misero a morte un re.

La mano possente conduce a una spalla sghimbescia,
Il calcio rattrappisce le giunture delle dita;
Una penna d’un’oca ha messo fine all’omicidio
Che ha messo fine ai negoziati.

La mano che firmò il trattato produsse una febbre.
E la penuria crebbe, e le locuste vennero;
Grande è la mano che ha dominio sull’uomo
Scarabocchiando un nome.

I cinque re contano i morti, ma la piaga
Incrostata non curano, la fronte non carezzano;
Una mano governa la pietà come governa i cieli;
Dalle mani non scorrono le lacrime.





The hand that signed the paper



The hand that signed the paper felled a city;
Five sovereign fingers taxed the breath,
Doubled the globe of dead and halved a country;
These five kings did a king to death.

The mighty hand leads to a sloping shoulder,
The fingers' joints are cramped with chalk;
A goose's quill has put an end to murder
That put an end to talk.

The hand that signed the treaty bred a fever,
And famine grew, and locusts came;
Great is the hand that holds dominion over
Man by a scribbled name.

The five kings count the dead but do not soften
The crusted wound nor stroke the brow;
A hand rules pity as a hand rules heaven;
Hands have no tears to flow.

domenica 9 novembre 2014

Il poeta della settimana: Al-Khayyaām


Chi può citare i nome di tre letterati musulmani alzi la mano.
Vedo pochissime mani.
Eppure di questi tempi, quando la semplice parola musulmano tende a suscitare amalgami di ogni genere e tipo, non sarebbe male conoscere un po' di più quel mondo.
Omar Al-Khayyaām (o 'Umar Ḫayyam), al secolo Ghiyāth ad-Dīn Abu'l-Fatḥ ʿUmar ibn Ibrāhīm al-Khayyām Nīshāpūrī, nato il 18 maggio del 1048, è stato un poeta, matematico, filosofo astronomo e mistico sufi, originario del Khorasan persiano, regione orientale del Paese, il cui nome significa dove ha origine il sole
Le poesie di Khayyaām sono state tradotte in inglese verso la metà dell'800 e quella traduzione non solo fece scoprire all'Occidente un grande poeta, ma ne permise anche la riscoperta in Persia, dove era stato più o meno dimenticato per secoli.
Ha scritto un migliaio di rubāʿiyyāt, parola persiana tradotta solitamente con quartine, ma che in realtà ha a che vedere con la struttura metrica dei versi, riferiti alle quattro parti del metro arabo definito ʿarūḍ.
Il tema principale dei suoi scritti è il vino, ma attraverso il vino è di vita e di morte che Khayyām ci parla, di amore, di amicizia e di disprezzo verso l'intransigenza bigotta.
Le quartine le ho tenute a lungo accanto al letto, leggendomene qualcuna di tanto in tanto, come si va, appunto, a bersi un buon bicchiere di vino, per il puro piacere. Anche se molto diverso da Bashō, poeta giapponese al quale ho consacrato un post qualche settimana fa, Khayyām me lo ricorda per quel suo uso di testi brevi e quasi impressionisti. Ma mentre Bashō sembra sempre etereo e contemplativo, Khayyām è molto più decisamente terreno e concreto. Khayyām era in realtà un poeta dilettante, e riservava i suoi scritti agli amici. A lui si devono un'importante Spiegazione delle difficoltà nei postulati degli Elementi di Euclide, un metodo per la soluzione delle funzioni cubiche, il miglioramento del calendario persiano e vari testi di filosofia matematica. Secondo alcune fonti, pare anche che Khayyām fosse un convinto eliocentrista, cinque secoli prima di Copernico (e, detto per inciso, tredici secoli dopo Aristarco). 
Approfitto di questo post per segnalare qualche altro testo degno di nota.
Prima di tutto le Shahnameh, o Libro dei re, del persiano Ferdowsi, che precede Khayyām di pochi decenni. È la grande epopea persiana, che inizia con la creazione del mondo e arriva fino all'invasione araba del VII secolo. Una meraviglia, di cui ho comprato un esemplare in inglese in occasione di un viaggio a Teheran, ma di cui non trovo traccia in versione italiana.
Saltando completamente di palo in frasca e passando dal mondo persiano a quello arabo, un libro di cui consiglio vivamente la lettura è La casa della saggezza, di Jim Al-Khalili, fisico nato a Baghdad da padre iracheno e madre britannica, nonché ex-presidente della British Humanist Association. Il libro è una bellissima e interessantissima passeggiata attraverso la scienza medievale musulmana, sia araba che persiana, all'epoca in cui Baghdad era non solo la città più grande del mondo con il suo milione di abitanti, ma del mondo era anche il centro scientifico.
C'è poi sempre il classico Le crociate viste dagli arabi, del libanese Amin Maalouf, che mostra quanto agli occhi del Medio Oriente i crociati cristiani apparissero come barbari crudeli e fanatici, totalmente privi di scrupoli e di senso della dignità. L'ho riletto un paio d'anni fa (il libro è dell'83) e l'ho trovato assolutamente degno di nota.
Tutte queste sono solo gocce nell'oceano del sapere arabo-musulmano nel quale avremmo tutti grande interesse a farci una nuotatina di tanto in tanto. 
Non resisto alla tentazione di rievocare il giorno in cui, dopo avere visitato Persepoli, a una cinquantina di chilometri da Shiraz, andai al sito archeologico di Naqsh-e Rostam. Lì, scavate in una parete rocciosa, avevo sotto gli occhi le tombe di Dario, Serse e Artaserse. Vaghi ricordi scolastici, nomi di grandi re dei quali so poco o nulla, ma che hanno segnato la storia del mondo quanto e forse più di un Ottaviano Augusto o di un Carlomagno. Quel giorno mi è sembrato di toccare con mano l'assoluto eurocentrismo del poco che so e i limiti che quella mia cultura mi impone. Per qualche istante almeno mi sono sentito invadere da un'ondata di curiosità e appena tornato a Teheran, tre giorni dopo, ho cercato una traduzione inglese dello Shanameh, da cui ho poi tratto uno spettacolo.
Non si può sapere tutto ed è anche giusto nutrirsi della propria cultura prima che delle altre. Ma più il mondo diventa policentrico e interdipendente, più è importante andare a vedere altrove, non perché altrove sia meglio, ma perché è andando lì che si possono scoprire modi di pensare profondamente diversi e altrettanto affascinanti dei nostri.
E adesso alcune quartine. Una sola precisazione: la numerazione delle quartine sembra diversa da una traduzione all'altra. Per esempio la prima quartina che trascrivo porta il numero 41 ma non è la stessa di quella che porta lo stesso numero in un'altra traduzione e che incomincia con Poiché le cose non devono accadere secondo i nostri desideri.


Rubaiyyat 41
Il vino è rubino fuso, e la bottiglia è la miniera,
la coppa è il corpo, e il suo liquore l'anima.
Quella coppa di cristallo, che ride di vino,
è una lacrima in cui si cela il sangue del cuore.
 

Rubaiyyat 42
Io bevo il vino, e i miei critici a dritta e a manca
dicono: «Non lo bere, ché è nemico della fede...».
Or che ho appreso che è nemico della fede,
per Dio, bevo il sangue del nemico, che è ben lecito bere.
 

Rubaiyyat 46
In ogni piana ove è un giardino di tulipani,
quei tulipani sbocciano dal sangue di un re
Ogni gambo di violetta che spunta dal verziere
è una mano che recinse (un giorno) il collo di un amico.
 

Rubaiyyat 47
Abbi senno, ché il Tempo è fonte di torbidi.
Non sedertene sicuro, ché la spada del Destino è acuta.
Se il Tempo ti pone in bocca una pasta di mandorle,
attento, non inghiottire, ché è intrisa di veleno!
 

Rubaiyyat 52
Un sorso di vino è migliore del regno di Kavùs,
del trono di Qobàd, e del dominio di Tus.
Ogni gemito che caccia al mattino un bevitore libertino
è migliore del gemito degli ipocriti asceti.
 

Rubaiyyat 54
Il dolore del mondo è un veleno, e il vino è il tuo antidoto.
Tu bevi l'antidoto, e non hai da temere del veleno
Con i bei giovani di primo pelo bevi il vino in perpetuo sul verde,
prima che il verde spunti sotto terra da te.
 

Rubaiyyat 57
Ogni erba verde spuntata in riva a un ruscello
la diresti sbocciata dal labbro d'una angelica creatura.
Non poggiare senza riguardo il piede sull'erba,
ché quest'erba è nata dalla polvere d'un Volto di luna.
 

Rubaiyyat 58
Non avendo noi sottomano verità e certezza,
non si può stare la vita intera in una dubbia speranza.
Su, non deponiamo di mano il bicchiere;
nell'ignoranza in cui siamo, che differenza c'è tra il lucido e l'ebbro?
 

Rubaiyyat 64
O tu, la cui guancia è ricalcata sulla rosa,
il cui volto è fuso sul modello delle bellezze della Cina!
O tu, il cui languido sguardo dà scacco al re di Babele
senza cavallo e torre, alfiere e pedina e regina!
 

Rubaiyyat 65
Quando la vita se ne va, che differenza c'è tra Baghdad e Balkh?
Quando la coppa è ricolma, che fa se dolce o amaro è il suo contenuto?
Bevi il vino, ché dopo di me e di te, più volte questa luna
passerà dall'ultimo al primo quarto, e dal primo all'ultimo.
 

Rubaiyyat 67
Questo intelletto che incede per la via della felicità
cento volte al giorno ti dice così:
cogli questo tuo tempo d'un attimo, giacché non sei
quell'erba fresca che falciano e poi torna a spuntare.
 

Rubaiyyat 68
Coloro che son caduti prigionieri del senno e del discernimento,
si sono distrutti nell'affanno dell'essere e del non-essere.
Va', ignorante che sei, e preferisci il succo della vite,
ché quegli ignoranti han prima di sera finita la loro giornata.
 

Rubaiyyat 69
Il mio venire (alla vita) non ha dato alcun frutto alla Ruota celeste
né la sua bellezza e dignità si è accresciuta per la mia dipartita.
Da nessuno ancora, le mie due orecchie hanno udito
che scopo abbia questa mia venuta e questa mia dipartita.
 

Rubaiyyat 70
Nella via dell'Amore bisogna essere puri.
Nell'artiglio della Morte bisogna morire.
Coppiere dal bel volto non te ne stare inoperoso,
versa il tuo liquore, che dovremo (un giorno) diventare terra!
 

Rubaiyyat 71
Ora che della gioia non è rimasto che il nome,
che nessun vecchio amico é rimasto, fuor del vino nuovo
Non ritrarre la mano dell'allegria dalla coppa del vino
oggi che in mano non ti è rimasto che il bicchiere.
 

Rubaiyyat 77
Non sono io uomo da aver paura del non-essere,
quella metà mi piace ancora più di questa.
Ho un'anima, che è un oggetto prestato entro una gabbia.
La riconsegnerò quando venga il momento di renderla.
 

Rubaiyyat 78
Questa carovana della vita passa mirabilmente.
Tu, cogli un istante che trascorra in letizia.
Coppiere, che stai a crucciarti per il domani degli amici?
Da' qui la coppa del vino, ché la notte trascorre.
 

Rubaiyyat 80
Benché il vino abbia lacerato il mio velo,
finché ho vita non mi separerò da quel liquore.
Mi stupiscono i venditori di vino, giacché essi
cosa mai potranno comprare di meglio di quel che vendono?

domenica 2 novembre 2014

Il poeta della settimana: Catullo


Una delle gioie di chi, come me, a scuola ci è andato poco è scoprire per tutto il corso della vita autori che altri hanno subito in classe come sgradevoli obblighi. Il solo libro che posseggo di poesie di Catullo l'ho comprato a 48 anni. Ma quando mi sono sbarazzato dei nove decimi dei libri che avevo in casa, tenendomi solo quelli che non ce la facevo proprio a dar via, non ho esitato un secondo, l'ho tenuto. E ho fatto bene.

Duemila anni dopo, leggere di tanto in tanto un po' di Catullo è cosa che favorisce l'equilibrio mentale. Non sarà il più grande poeta della storia del mondo, ma è così profondamente sano, specialmente nelle sue incazzature, che leggerlo è come togliersi un pensiero, una spina dal piede, una preoccupazione.

Sì, va bene, "Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai. / Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento", ma vuoi mettere con "(...) il tuo culo è più lindo d’una salierina di vetro, / e non caca dieci volte in un anno; e quel che fai  è più duro d’una fava secca e dei ciottoli di fiume; / tanto che se lo sfregassi e stropicciassi tra le mani, / non potresti sporcarti neanche un sol dito"?

Oggi ho scelto La taverna dei puttanieri, che i più eruditi tra i miei lettori non mancheranno di godersi in lingua originale a fondo pagina.



La taverna dei puttanieri

Voi, bestie che frequentate quell’immonda taverna,
nove colonne dopo il tempio di Càstore e Pollùce,
pensate di averlo solo voi il cazzo, che solo a voi,
qualunque fichetta si presenti, sia concesso
scoparverla mentre gli altri son tutti cornuti?
O forse, dal momento che sedete in cento o duecento
tutti in fila come deficienti, credete che non sarei capace
di ficcarvelo in bocca a tutti e duecento quanti siete?
E allora sappiatelo: sul muro fuori della taverna
scriverò che siete tutti dei gran cazzoni.
La mia donna, fuggita dalle mie braccia,
lei, amata quanto nessuna mai sarà amata,
in nome della quale ho combattuto così grandi battaglie,
siede lì, tra voi. Ve la sbattete a turno, quasi che foste onesti
e rispettabili, ma in realtà, ed è questa la cosa atroce,
siete un branco di mezze seghe fallite e puttanieri da strada;
e tu sei il primo, Ignazio, fra tutti quei capelloni,
nato tra gl'innumerevoli conigli della Celtiberia,
che credi d’esser bello nascosto dalla barba incolta
e ti sfreghi i denti sciacquandoli con l'urina.



Salax taberna vosque contubernales,
a pilleatis nona fratribus pila,
solis putatis esse mentulas vobis,
solis licere, quidquid est puellarum,
confutuere et putare ceteros hircos?
an, continenter quod sedetis insulsi
centum an ducenti, non putatis ausurum
me una ducentos irrumare sessores?
atqui putate: namque totius vobis
frontem tabernae sopionibus scribam.
puella nam mi, quae meo sinu fugit,
amata tantum quantum amabitur nulla,
pro qua mihi sunt magna bella pugnata,
consedit istic. Hanc boni beatique
omnes amatis, et quidem, quod indignum est,
omnes pusilli et semitarii moechi;
tu praeter omnes une de capillatis,
cuniculosae Celtiberiae fili,
Egnati, opaca quem bonum facit barba
et dens Hibera defricatus urina.

domenica 26 ottobre 2014

Il poeta della settimana: Ginsberg


Attenzione: la poesia che segue è da maneggiare con prudenza. È dinamite, è nitroglicerina, ma soprattutto è anfetamina intrisa di sperma.

Allen Ginsberg è probabilmente stato al ventesimo secolo ciò che Walt Whitman era stato all'800. In un secolo gli Stati Uniti erano cambiati profondamente. Non c'era più spazio per un cantore della vita e della Libertà con la L maiuscola. Largo a un altro genio, molto più preoccupato dallo scavare nei putridi meandri di un'America in piena dissoluzione che nell'intonare inni alla Natura.

Sono gli anni '50. Bombe atomiche sono esplose su Hiroshima e Nagasaki. Da un momento all'altro un mondo diviso in blocchi sembra poter annegare in una terza guerra mondiale. Per la prima volta l'olocausto generale è possibile.

Miles Davis, Charlie Parker, John Coltrane sono gli idoli della beat generation, come i Beatles e Bob Dylan lo saranno di quella degli hippies. Jack Kerouac ha già scritto Sulla strada, che sarà pubblicato solo nel '57, ma che chi gli sta vicino ha già letto. 
Quando, un anno prima, Ginsberg pubblica la sua poesia più famosa, Howl, Urlo, probabilmente immagina che correrà qualche guaio. E infatti i guai arrivano. Il 25 marzo del '57 la dogana confisca 520 copie che arrivano negli Stati Uniti da una casa editrice di Londra. Lawrence Ferlinghetti è arrestato per aver pubblicato il libro. Alla fine Ferlinghetti e altri coimputati verranno dichiarati innocenti, grazie a numerose testimonianze di letterati che considerano la poesia un capolavoro.

Quando, ancora adolescente, mi sono ritrovato a leggere quel testo rabbioso, denso, osceno, criptico e magicamente spirituale, io di tutto questo non ne sapevo nulla. Ma ho avuto immediatamente l'impressione di scoprire l'esistenza di orizzonti insperati. 
Diciamo la verità, di questa strana poesia non capivo granché; ma il ritmo, le parole e le immagini mi travolgevano come un fiume in piena, dando ai miei brufoli di acne la speranza di potersi annegare in qualche caldo e misterioso oceano al di là delle montagne.

Ancora oggi, rileggendo Howl, sono sbigottito dalla veemenza e dalla musicalità del testo. Questa poesia è ormai considerata come uno dei capolavori assoluti della letteratura nordamericana, ma non c'è niente da fare, conserva tutta la sua dirompente intrattabilità.

Non so cos'altro dire. Amo questa poesia in modo viscerale, anche perché mi pare impossibile amarla altrimenti. Se non l'hai mai letta, ti consiglio di buttartici dentro e di lasciarti andare, di lasciarti portare via anche se non capisci, ché tanto potrai sempre rileggerla con calma più tardi. Se in casa hai Kind of blue di Miles Davis, mettilo come fondo sonoro. È stato registrato due anni dopo la pubblicazione di Howl, è figlio della stessa America.

Howl è diviso in tre parti. Io qui pubblico solo la prima, tanto per darti voglia di andarti a cercare le altre due. Ho preso un paio di traduzioni su internet e le ho rimodellate a mio piacimento là dove mi sembravano approssimative. Ovviamente a fondo pagina metto il testo originale.
Un consiglio: leggi Ginsberg a voce alta, funziona meglio.



URLO

Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude,

trascinarsi nei quartieri negri all'alba in cerca di droga rabbiosa,
alternativi dalle teste d'angelo brucianti per l'antica celeste connessione con la dinamo stellata nel meccanismo della notte,

che in povertà e stracci e occhi vuoti sedevano fumando nell'oscurità soprannaturale di soffitte con acqua fredda galleggianti tra le cime delle città contemplando il jazz,

che si denudavano i cervelli al Cielo sotto l'Elevated e vedevano angeli maomettani barcollare illuminati su tetti condominiali,

che attraversavano università con freddi occhi splendenti allucinando l'Arkansas e la tragedia Blakiana fra gli studiosi della guerra,

che venivano espulsi dalle accademie per pazzia & pubblicazione di odi oscene sulle finestre del teschio,

che si annidavano in mutande dentro stanze non sbarbate, bruciando i loro soldi in cestini dei rifiuti e ascoltando il Terrore attraverso il muro,

che venivano perquisiti nelle loro barbe pubiche tornando da Laredo con una cintura di marijuana per New York,

che mangiavano fuoco in alberghi riverniciati o bevevano trementina nella Paradise Alley, morte, o notte dopo notte si purgatorizzavano i busti

con sogni, con droghe, con incubi a occhi aperti, alcol e cazzo e palle infinite,

incomparabili vicoli ciechi di nuvola vibrante e fulmine nella mente scagliata verso i poli di Canada & Paterson, che illumina tutto il mondo immobile del Tempo in mezzo,

solidità al Peyote di saloni, albe cimiteriali di alberi verdi da retro cortile, ubriachezza di vino sui tetti, borghi commerciali di giretto da fumati, semaforo lampeggiante al neon, vibrazioni di sole e luna e alberi nelle ruggenti foschie invernali di Brooklyn, urla fra pattumiere e luce mentale di re gentile,

che si incatenavano a metropolitane per l'interminabile corsa da Battery al santo Bronx sotto simpamina finché il rumore di ruote e bambini li faceva scendere tremanti con la bocca convulsa e abbattuti il cervello inaridito svuotati di splendore nella sconfortante luce di Zoo,

che annegavano tutta la notte nella luce sottomarina di Blickford's emergevano e sedevano per un pomeriggio di birra svaporata in un desolato Fugazzi's, ascoltando il frastuono d'inferno dal jukebox a idrogeno,

che parlavano senza interruzione settanta ore da parco a casa a bar a Bellevue a museo al Ponte di Brooklin,

battaglione disperso di conversazionalisti platonici che saltavano fuori da scalinate di uscite di sicurezza da davanzali dall'Empire State dalla luna,

farfugliando strillando vomitando sussurrando fatti e ricordi e aneddoti e pugni nell'occhio e traumi di ospedali e carceri e guerre,

interi intelletti rigurgitati in un richiamo totale per sette giorni e notti con occhi brillanti, carne per la Sinagoga buttata sul pavimento,

che svanivano nel nulla Zen New Jersey lasciando una scia di ambigue cartoline del municipio di Atlantic City,

soffrendo calori orientali e scricchiolamenti di ossa tangerini e emicranie cinesi durante astinenze da droga in una squallida stanza mobiliata di Newark,

che giravano e giravano a mezzanotte nello spiazzo della ferrovia domandandosi dove andare, e andavano, senza lasciare cuori spezzati,

che accendevano sigarette in carri merci carri merci carri merci arrancanti nella neve verso fattorie solitarie in notti da nonno,

che studiavano Plotino Poe San Giovanni della Croce telepatia e cabala bebop perche il cosmo vibrava istintivamente ai loro piedi in Kansas,

che si aggiravano solitari per le strade dell'Idaho cercando angeli indiani visionari che fossero angeli indiani visionari,

che pensavano di essere solo pazzi quando Baltimora risplendeva in estasi soprannaturale,

che saltavano in limousine con il cinese dell'Oklahoma ispirati dalla pioggia invernale di semaforo di paesino a mezzanotte,

che si aggiravano affamati e soli per Houston cercando jazz o sesso o minestra, e seguivano il  brillante spagnolo per chiacchierare di America e di Eternità, un'impresa disperata, e così si imbarcavano per l'Africa,

che scomparivano nei vulcani del Messico lasciandosi dietro nient'altro che l'ombra dei jeans e la lava e cenere di poesia sparpagliata nel caminetto Chicago,

che riapparivano sulla West Coast investigando sull'FBI in barbe e pantaloncini e grandi occhi pacifisti sexy nella loro pelle scura distribuendo volantini incomprensibili,

che si bucavano le braccia con le sigarette per protestare contro la nebbia di tabacco narcotico del Capitalismo,

che distribuivano volantini Supercomunisti a Union Square piangendo e spogliandosi mentre le sirene di Los Alamos li zittivano col loro grido, e zittivano Wall, e anche il ferry di Staten Island gridava,

che crollavano piangendo in palestre bianche nudi e tremanti di fronte al meccanismo di altri scheletri,

che mordevano poliziotti sul collo e gridavano di gioia in macchine della polizia per non aver commesso alcun crimine salvo la propria pederastia in selvaggia ebollizione e intossicazione,

che urlavano in ginocchio nella metropolitana e venivano trascinati via dal tetto agitando genitali e manoscritti,

che si lasciavano inculare da motociclisti santi, e gridavano dalla gioia,

che poi scambiavano pompini con quei serafini umani, i marinai, carezze di amore atlantico e caraibico,

che scopavano la mattina la sera in roseti e nell'erba di parchi pubblici e cimiteri spargendo il loro seme liberamente per chiunque volesse venire,

che avevano interminabili singhiozzi provando a ridacchiare ma finivano col gemere dietro un separè di un bagno turco quando l'angelo biondo e nudo veniva a infilzarli con la spada,

che perdevano i loro giovani amanti per le tre vecchie streghe del destino la strega guercia del dollaro eterosessuale la strega guercia che ammicca dall'utero e la strega guercia che non fa altro che starsene tutto il giorno piantata sul culo a tagliare i fili d'oro intellettuali del telaio dell'artigiano,

che copulavano estatici e insaziabili con una bottiglia di birra un fidanzatino un pacchetto di sigarette una candela e cadevano giù dal letto, e continuavano sul pavimento e nel soggiorno e finivano collassati contro il muro con una visione di figa suprema perfetta e sperma eludendo l'ultima sborrata di coscienza,

che addolcivano le fighe di un milione di ragazze tremanti al tramonto, e avevano gli occhi rossi al mattina ma erano preparati ad addolcire la figa dell'alba, chiappe balenanti nei fienili e nude al lago,

che andavano a puttane in Colorado in una miriade di auto civette rubate, N.C., eroe segreto di questi versi, mandrillo e Adone di Denver — gioia alla memoria delle sue innumerevoli trombate di ragazze in parcheggi vuoti e retri di tavole calde, su sedili traballanti di cinema, su cime di montagne in grotte o con cameriere ossute in strade familiari sollevando sottane solitarie e specialmente solipsismi segreti di cessi di stazioni di servizio e pure in vicoli attorno a casa,

che sfumavano in vasti film sordidi, si spostavano nei sogni, si svegliavano su un'improvvisa Manhattan, e si tiravano fuori da sottoscala intossicati di Tokai senza cuore e orrori di sogni di ferro da Terza Strada e vagavano verso uffici di disoccupazione,

che camminavano tutta la notte con le scarpe piene di sangue sulle banchine di neve aspettando che una porta dell'East River si aprisse su una stanza piena di vapore e oppio,

che creavano grandi drammi suicidi in appartamenti a picco sull'Hudson sotto il riflettore blu da coprifuoco della luna e le loro teste saranno incoronate d'alloro nell'oblio,

che mangiavano stufato d'agnello dell'immaginazione o digerivano granchi sul fondo fangoso dei fiumi di Bowery,

che piangevano alla romanza delle strade con i loro carrelli pieni di cipolle e cattiva musica,

che sedevano dentro casse respirando nell'oscurità sotto il ponte, e si alzavano per costruire clavicembali nelle loro stanze,

che tossivano al sesto piano di Harlem incoronati di fiamme sotto il cielo tubercoloso circondati da cassette d'arance di teologia,

che scarabocchiavano tutta la notte in un rock and roll su sublimi incantesimi che nel mattino giallo erano strofe di spazzatura,

che cucinavano animali fradici polmoni cuore zampe coda borsc e tortillas sognando il puro regno vegetale,

che si infilavano sotto camion della carne in cerca di un uovo,

che lanciavano gli orologi giù dal tetto per esprimere il proprio voto per un Eternità al di fuori del Tempo, e le sveglie gli caddevano sulla testa ogni giorno per il decennio successivo,

che si tagliavano i polsi per tre volte di fila senza successo, rinunciavano ed erano costretti ad aprire negozi di antiquariato dove credevano di invecchiare e piangevano,

che venivano bruciati vivi nei loro innocenti completi di flanella su Madison Avenue fra esplosioni di versi plumbei e il fracasso corazzato dei reggimenti della moda e gli strilli alla nitroglicerina delle checche della pubblicità e il gas tossico di sinistri redattori intelligenti, o venivano investiti dai taxi ubriachi della Realtà Assoluta,

che si buttavano giù dal Ponte di Brooklyn questo è successo veramente e se ne andavano via ignoti e dimenticati nella foschia spettrale della zuppa di vicoli e di camion dei pompieri di Chinatown, nemmeno una birra gratis,

che cantavano dalle finestre disperati, cadevano dal finestrino della metropolitana, si buttavano nel lurido Passaic, scavalcavano negri, gridavano per tutta la strada, danzavano su bicchieri di vino rotti a piedi scalzi frantumavano dischi fonografici di jazz tedesco dei nostalgici anni '30 europei finivano il whisky e vomitavano rantolando nel maledetto cesso, gemiti nelle orecchie e l'esplosione di colossali sirene,

che sfrecciavano sulle autostrade del passato viaggiando verso la fuoriserie-Golgota l'uno dell'altro verso la solitudine di prigione verso la veglia o incarnazione jazz di Birmingham,

che guidavano attraverso il Paese settantadue ore per scoprire se io avevo avuto una visione o tu avevi avuto una visione o lui aveva avuto una visione per scoprire l'Eternità,

che andavano a Denver, che morivano a Denver, che tornavano a Denver & aspettavano invano, che vegliavano a Denver e meditavano da soli a Denver infine se ne andavano per scoprire il Tempo, e adesso a Denver mancano i suoi eroi,

che cadevano in ginocchio in cattedrali senza speranza pregando per la salvezza dell'altro e luce e seni, finché l'anima si illuminava i capelli per un istante,

che si sfondavano il cervello in prigione aspettando criminali impossibili con teste d'oro e il fascino della realtà nei cuori che cantavano dolci blues ad Alcatraz,

che si ritiravano in Messico per coltivare un vizio, o sulle Montagne Rocciose per intenerire Budda o a Tangeri per i ragazzini o o alla Southern Pacific per la locomotiva nera o a Harvard o a Narciso o a Woodlawn alle orge o alla tomba,

che esigevano test d'infermità mentale accusando la radio di ipnotismo e restavano con la loro pazzia e le loro mani e la giuria incerta,

che al CCNY lanciavano insalata di patate ai conferenzieri sul Dadaismo e poi si presentavano sui gradini di granito del manicomio con teste rasate e discorsi arlecchineschi di suicidio, pretendendo un' immediata lobotomia,

e che ricevevano invece il vuoto solido dell'insulina metrazolo elettricità idroterapia psicoterapia terapia occupazionale ping-pong e amnesia,

che per protesta priva di umorismo capovolgevano simbolicamente un unico tavolo da ping-pong, riposando brevemente in catatonia,

ritornando anni dopo veramente calvi a parte una parrucca di sangue, e lacrime e dita, al destino visibile da pazzo delle corsie delle città manicomio dell'Est,

fetidi corridoi del Pilgrim State, di Rockland e di Greystone, bisticciando con gli echi dell'anima, ballando il rock and roll nella solitudine-panca dolmen-impero dell'amore a mezzanotte, sogno di vita un incubo, corpi mutati in pietra pesanti come la luna,
con mamma finalmente ***, e l'ultimo fantastico libro scaraventato dalla finestra, e l'ultima porta chiusa alle 4 del mattino e l'ultimo telefono sbattuto contro il muro per risposta e l'ultima stanza arredata svuotata fino all'ultimo mobile mentale, una rosa gialla di carta arrotolata su una gruccia di fil di ferro nell'armadio, e persino quella immaginaria, niente altro che uno speranzoso pezzettino di allucinazione

ah, Carl, finché non sei al sicuro neanch'io sono al sicuro, e ora sei proprio nel completo brodo animale del tempo

e chi dunque correva per le strade ghiacciate ossessionato da un improvviso balenio dell'alchimia dell'uso dell'ellisse il catalogo il metro e i piani vibranti,

che sognavano e facevano abissi umanizzati in Tempo & Spazio grazie a immagini giustapposte, e intrappolavano l'arcangelo dell'anima tra due immagini visive e univano i verbi elementali e mettevano insieme il nome e l'insorgere della coscienza saltando alla sensazione di Pater Omnipotens Aeterni Deus

per ricreare la sintassi e la misura della povera prosa umana e fermarcisi di fronte muti e intelligenti e tremanti di vergogna, respinti ma confessando l'anima per adeguarsi al ritmo del pensiero nella sua testa nuda e infinita,

il barbone matto e angelo battuto nel Tempo, sconosciuto, eppure mettendo giù qui quanto potrebbe rimanere da dire nel tempo dopo la morte,

e si alzavano reincarnati nei panni spettrali del jazz all'ombra della tromba d'oro della banda e soffiavano la sofferenza d'amore della nuda mente dell'America in un grido di sassofono eli eli lamma lamma sabachtani che faceva tremare le città fino all'ultima radio

con il cuore assoluto della poesia della vita macellato dai loro stessi corpi buono da mangiare per mille anni.



HOWL

I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked,

dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix,

angelheaded hipsters burning for the ancient heavenly connection to the starry dynamo in the machinery of night,

who poverty and tatters and hollow-eyed and high sat up smoking in the supernatural darkness of cold-water flats floating across the tops of cities contemplating jazz,

who bared their brains to Heaven under the El and saw Mohammedan angels staggering on tenement roofs illuminated,

who passed through universities with radiant cool eyes hallucinating Arkansas and Blake-light tragedy among the scholars of war,

who were expelled from the academies for crazy & publishing obscene odes on the windows of the skull,

who cowered in unshaven rooms in underwear, burning their money in wastebaskets and listening to the Terror through the wall,

who got busted in their pubic beards returning through Laredo with a belt of marijuana for New York,

who ate fire in paint hotels or drank turpentine in Paradise Alley, death, or purgatoried their torsos night after night

with dreams, with drugs, with waking nightmares, alcohol and cock and endless balls,

incomparable blind streets of shuddering cloud and lightning in the mind leaping toward poles of Canada & Paterson, illuminating all the motionless world of Time between,

Peyote solidities of halls, backyard green tree cemetery dawns, wine drunkenness over the rooftops, storefront boroughs of teahead joyride neon blinking traffic light, sun and moon and tree vibrations in the roaring winter dusks of Brooklyn, ashcan rantings and kind king light of mind,

who chained themselves to subways for the endless ride from Battery to holy Bronx on benzedrine until the noise of wheels and children brought them down shuddering mouth-wracked and battered bleak of brain all drained of brilliance in the drear light of Zoo,

who sank all night in submarine light of Bickford’s floated out and sat through the stale beer afternoon in desolate Fugazzi’s, listening to the crack of doom on the hydrogen jukebox,

who talked continuously seventy hours from park to pad to bar to Bellevue to museum to the Brooklyn Bridge,

a lost battalion of platonic conversationalists jumping down the stoops off fire escapes off windowsills off Empire State out of the moon,

yacketayakking screaming vomiting whispering facts and memories and anecdotes and eyeball kicks and shocks of hospitals and jails and wars,

whole intellects disgorged in total recall for seven days and nights with brilliant eyes, meat for the Synagogue cast on the pavement,

who vanished into nowhere Zen New Jersey leaving a trail of ambiguous picture postcards of Atlantic City Hall,

suffering Eastern sweats and Tangerian bone-grindings and migraines of China under junk-withdrawal in Newark’s bleak furnished room,   

who wandered around and around at midnight in the railroad yard wondering where to go, and went, leaving no broken hearts,

who lit cigarettes in boxcars boxcars boxcars racketing through snow toward lonesome farms in grandfather night,

who studied Plotinus Poe St. John of the Cross telepathy and bop kabbalah because the cosmos instinctively vibrated at their feet in Kansas,

who loned it through the streets of Idaho seeking visionary indian angels who were visionary indian angels,

who thought they were only mad when Baltimore gleamed in supernatural ecstasy,

who jumped in limousines with the Chinaman of Oklahoma on the impulse of winter midnight streetlight smalltown rain,

who lounged hungry and lonesome through Houston seeking jazz or sex or soup, and followed the brilliant Spaniard to converse about America and Eternity, a hopeless task, and so took ship to Africa,

who disappeared into the volcanoes of Mexico leaving behind nothing but the shadow of dungarees and the lava and ash of poetry scattered in fireplace Chicago,

who reappeared on the West Coast investigating the FBI in beards and shorts with big pacifist eyes sexy in their dark skin passing out incomprehensible leaflets,

who burned cigarette holes in their arms protesting the narcotic tobacco haze of Capitalism,

who distributed Supercommunist pamphlets in Union Square weeping and undressing while the sirens of Los Alamos wailed them down, and wailed down Wall, and the Staten Island ferry also wailed,

who broke down crying in white gymnasiums naked and trembling before the machinery of other skeletons,

who bit detectives in the neck and shrieked with delight in policecars for committing no crime but their own wild cooking pederasty and intoxication,

who howled on their knees in the subway and were dragged off the roof waving genitals and manuscripts,

who let themselves be fucked in the ass by saintly motorcyclists, and screamed with joy,

who blew and were blown by those human seraphim, the sailors, caresses of Atlantic and Caribbean love,

who balled in the morning in the evenings in rosegardens and the grass of public parks and cemeteries scattering their semen freely to whomever come who may,

who hiccuped endlessly trying to giggle but wound up with a sob behind a partition in a Turkish Bath when the blond & naked angel came to pierce them with a sword,

who lost their loveboys to the three old shrews of fate the one eyed shrew of the heterosexual dollar the one eyed shrew that winks out of the womb and the one eyed shrew that does nothing but sit on her ass and snip the intellectual golden threads of the craftsman’s loom,

who copulated ecstatic and insatiate with a bottle of beer a sweetheart a package of cigarettes a candle and fell off the bed, and continued along the floor and down the hall and ended fainting on the wall with a vision of ultimate cunt and come eluding the last gyzym of consciousness,

who sweetened the snatches of a million girls trembling in the sunset, and were red eyed in the morning but prepared to sweeten the snatch of the sunrise, flashing buttocks under barns and naked in the lake,

who went out whoring through Colorado in myriad stolen night-cars, N.C., secret hero of these poems, cocksman and Adonis of Denver—joy to the memory of his innumerable lays of girls in empty lots & diner backyards, moviehouses’ rickety rows, on mountaintops in caves or with gaunt waitresses in familiar roadside lonely petticoat upliftings & especially secret gas-station solipsisms of johns, & hometown alleys too,

who faded out in vast sordid movies, were shifted in dreams, woke on a sudden Manhattan, and picked themselves up out of basements hung-over with heartless Tokay and horrors of Third Avenue iron dreams & stumbled to unemployment offices,

who walked all night with their shoes full of blood on the snowbank docks waiting for a door in the East River to open to a room full of steam-heat and opium,

who created great suicidal dramas on the apartment cliff-banks of the Hudson under the wartime blur floodlight of the moon & their heads shall be crowned with laurel in oblivion,

who ate the lamb stew of the imagination or digested the crab at the muddy bottom of the rivers of Bowery,

who wept at the romance of the streets with their pushcarts full of onions and bad music,

who sat in boxes breathing in the darkness under the bridge, and rose up to build harpsichords in their lofts,

who coughed on the sixth floor of Harlem crowned with flame under the tubercular sky surrounded by orange crates of theology,

who scribbled all night rocking and rolling over lofty incantations which in the yellow morning were stanzas of gibberish,

who cooked rotten animals lung heart feet tail borsht & tortillas dreaming of the pure vegetable kingdom,

who plunged themselves under meat trucks looking for an egg,

who threw their watches off the roof to cast their ballot for Eternity outside of Time, & alarm clocks fell on their heads every day for the next decade,

who cut their wrists three times successively unsuccessfully, gave up and were forced to open antique stores where they thought they were growing old and cried,

who were burned alive in their innocent flannel suits on Madison Avenue amid blasts of leaden verse & the tanked-up clatter of the iron regiments of fashion & the nitroglycerine shrieks of the fairies of advertising & the mustard gas of sinister intelligent editors, or were run down by the drunken taxicabs of Absolute Reality,

who jumped off the Brooklyn Bridge this actually happened and walked away unknown and forgotten into the ghostly daze of Chinatown soup alleyways & firetrucks, not even one free beer,

who sang out of their windows in despair, fell out of the subway window, jumped in the filthy Passaic, leaped on negroes, cried all over the street, danced on broken wineglasses barefoot smashed phonograph records of nostalgic European 1930s German jazz finished the whiskey and threw up groaning into the bloody toilet, moans in their ears and the blast of colossal steamwhistles,

who barreled down the highways of the past journeying to each other’s hotrod-Golgotha jail-solitude watch or Birmingham jazz incarnation,

who drove crosscountry seventytwo hours to find out if I had a vision or you had a vision or he had a vision to find out Eternity,

who journeyed to Denver, who died in Denver, who came back to Denver & waited in vain, who watched over Denver & brooded & loned in Denver and finally went away to find out the Time, & now Denver is lonesome for her heroes,

who fell on their knees in hopeless cathedrals praying for each other’s salvation and light and breasts, until the soul illuminated its hair for a second,

who crashed through their minds in jail waiting for impossible criminals with golden heads and the charm of reality in their hearts who sang sweet blues to Alcatraz,

who retired to Mexico to cultivate a habit, or Rocky Mount to tender Buddha or Tangiers to boys or Southern Pacific to the black locomotive or Harvard to Narcissus to Woodlawn to the daisychain or grave,

who demanded sanity trials accusing the radio of hypnotism & were left with their insanity & their hands & a hung jury,

who threw potato salad at CCNY lecturers on Dadaism and subsequently presented themselves on the granite steps of the madhouse with shaven heads and harlequin speech of suicide, demanding instantaneous lobotomy,

and who were given instead the concrete void of insulin Metrazol electricity hydrotherapy psychotherapy occupational therapy pingpong & amnesia,

who in humorless protest overturned only one symbolic pingpong table, resting briefly in catatonia,

returning years later truly bald except for a wig of blood, and tears and fingers, to the visible madman doom of the wards of the madtowns of the East,

Pilgrim State’s Rockland’s and Greystone’s foetid halls, bickering with the echoes of the soul, rocking and rolling in the midnight solitude-bench dolmen-realms of love, dream of life a nightmare, bodies turned to stone as heavy as the moon,

with mother finally ******, and the last fantastic book flung out of the tenement window, and the last door closed at 4 A.M. and the last telephone slammed at the wall in reply and the last furnished room emptied down to the last piece of mental furniture, a yellow paper rose twisted on a wire hanger in the closet, and even that imaginary, nothing but a hopeful little bit of hallucination—

ah, Carl, while you are not safe I am not safe, and now you’re really in the total animal soup of time—

and who therefore ran through the icy streets obsessed with a sudden flash of the alchemy of the use of the ellipsis catalogue a variable measure and the vibrating plane,

who dreamt and made incarnate gaps in Time & Space through images juxtaposed, and trapped the archangel of the soul between 2 visual images and joined the elemental verbs and set the noun and dash of consciousness together jumping with sensation of Pater Omnipotens Aeterna Deus

to recreate the syntax and measure of poor human prose and stand before you speechless and intelligent and shaking with shame, rejected yet confessing out the soul to conform to the rhythm of thought in his naked and endless head,

the madman bum and angel beat in Time, unknown, yet putting down here what might be left to say in time come after death,

and rose reincarnate in the ghostly clothes of jazz in the goldhorn shadow of the band and blew the suffering of America’s naked mind for love into an eli eli lamma lamma sabacthani saxophone cry that shivered the cities down to the last radio

with the absolute heart of the poem of life butchered out of their own bodies good to eat a thousand years.