martedì 29 ottobre 2013

Uno di noi? Uno di loro?

Lewis Allan Reed

Un amico americano mi ha mandato il link verso un articolo dell'Huffington Post transatlantico, intitolato L'identità giudaica di Lou Reed: uno sguardo all'indietro verso i rapporti dell'iconico rocker con la sua fede. L'articolo, come sempre, mi ha rimandato ad altri link.
Che Lou Reed fosse ebreo non lo sapevo e devo dire che la mia prima e spontanea reazione nel venirlo a sapere è stata di totale indifferenza. Non ho l'abitudine di valutare le creazioni di un artista in funzione della sua provenienza, sia questa geografica, culturale, sociologica, o religiosa, anche se può essere interessante, a posteriori, conoscere queste cose. È comunque sempre la creazione che primeggia per me sulle motivazioni più o meno profonde che l'hanno originata.
Dico questo e al tempo stesso mi rendo conto che faccio delle eccezioni. Se, per esempio, riesco a leggere il bellissimo Ivanhoe di Walter Scott nonostante l'evidente antisemitismo dell'autore, mi è molto più difficile abbordare il Viaggio al termine della notte di Céline dimenticando che lo scrittore pubblicò anche vari scritti, come Bagatelle per un massacro, La scuola dei cadaveri, o Le belle bandiere, apertamente antisemiti e filo-hitleriani. Immagino che questa differenza di trattamento mi venga spontanea a causa della distanza temporale di Scott e della vicinanza di Céline.
Ma torniamo a Lou Reed. E all'America, Paese nel quale, contrariarmente all' Europa, l'identità comunitaria, il fatto di essere ebreo, irlandese, polacco o battista è senz'altro più importante che da noi.
Quel che mi fa sorridere nei credenti, come in molti di quelli che si identificano fortemente con una comunità culturale, etnica, sociologica o religiosa, è che basta che uno muoia per far partire tutta una litania di "sembrava che la pensasse in modo diverso, però in fondo era uno di noi." Al che mi viene da far notare che magari, sì, era uno di voi, però sembrava pensarla proprio in modo diverso, no?...
Il giornalista dell'Huffington Post riporta due citazioni di Reed. la prima: "Il mio Dio è il rock and roll. È un potere oscuro che può cambiarti la vita. [...] La parte più importante della mia religione è suonare la chitarra." Della seconda citazione troviamo traccia su una pagina del sito clashmusic.com nel 2001: "Dopo che aveva fatto qualche osservazione antisemita, fu chiesto a Reed se fosse ebreo e lui rispose: 'Naturalmente, non lo sono tutti i migliori?' Poi però, quando il giornalista rock Lester Bangs gli chiese in che modo le sue canzoni fossero in relazione col suo essere ebreo, Reed, contrariato, rispose che non conosceva nessun ebreo."
Cosa fa allora il giornalista del Post? Prende atto delle risposte di Reed? Nient'affatto: ci spiega che Reed ha dato concerti in Israele e che recentemente un gruppo di ricercatori ha deciso di chiamare loureedia annulipes una nuova specie di ragno scoperta nel deserto del Negev, nel sud d'Israele. Sarà... Ma è perché il ragno è stato scoperto in Israele o perché è di colore viola (velvet in inglese) e che vive essenzialmente sotto terra (underground)? È perché Lou Reed era nato ebreo, o perché aveva fondato i Velvet Underground
Spesso gli scienziati si divertono coi nomi che danno alle loro scoperte; basti ricordare gli astronomi milanesi che chiamarono Geminga (pronunciato Gheminga, dal milanese gh'è minga, non c'è) a un pulsar, ovvero una stella di neutroni della costellazione Gemini che ruota su se stessa 5 volte al secondo, ma che non emette radiazioni, rendendosi così invisibile; ricordiamo anche il Carbonio60, la cui molecola ha la forma e la struttura di un pallone da football e che fu in origine chiamata soccerina (pronuncia soccherina, da soccer, gioco del calcio) e fui poi definitivamente battezzata buckminsterfullerina in onore dell'architetto Buckminster Fuller, a cui dobbiamo le famose cupole geodesiche (vedi la Biosfera di Montréal, costruita in occasione dell'Expo 1967).
Questa smania dei credenti di voler a tutti i costi inglobare nella loro comunità anche chi, pur essendoci nato, se ne è poi chiaramente distanziato, è cosa che mi ha sempre fatto girare i testicoli a velocità vertiginosa. È come se si dicesse di me che sono cristiano semplicemente perché i miei genitori hanno deciso di battezzarmi e poi mi hanno pure mandato per due anni a scuola dalle suore. Ma siamo matti? E tutto il resto della mia vita non conta niente? E allora il cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger (1926-2007) non era un vero cristiano perché era nato ebreo? E San Paolo di Tarso? E Paul Claudel? E Ashok, il più grande imperatore buddista della storia dell'India, non era buddista perché era nato induista? E Mohammed Alì?
Questo volere a tutti i costi reintegrare in una comunità di pensiero qualcuno che si è dato un male bestia per venirne fuori non è solo una grande mancanza di rispetto, è anche qualcosa che contiene in sé il germe dell'intolleranza e, diciamolo pure, di un certo razzismo. È come dire sì, è vero che sei nato uno di noi e che poi hai deciso di diventare un altro, però hai fatto cose belle e importanti e siccome solo noi facciamo cose belle e importanti, allora è chiaro che in fondo uno di noi lo sei sempre stato.
E invece no: esistono uomini degni e uomini indegni dentro ogni comunità, ogni religione, ogni cultura. Non continuare instancabilmente a ripetere una verità tanto ovvia significa portare acqua al mulino dei modi di pensare più gretti e insopportabili, srotolare il tappeto rosso davanti a "pensatori" del tipo dei fanatici cristiani statunitensi, dei talebani afghani, dei peggiori fanatici induisti, degli ultranazionalisti storici giapponesi, di tutte le Oriane Fallaci e i Juan Gines Sepùlveda del mondo, di tutti gli xenofobi e i fondamentalisti che ci inquinano la vita.
Allora lasciamo riposare Lou Reed in pace e ricordiamocelo per quello che è stato: un grande musicista rock, un uomo tormentato e traumatizzato dagli elettroschok ai quali fu sottoposto in gioventù dai genitori che volevano guarirlo dalla sua bisessualità; un uomo che, nonostante la sua evidente nevrosi e il consumo massiccio di metanfetamine, ha scritto e interpretato brani che fanno parte della colonna sonora della nostra vita.
Take a walk on the wild side.
Do dodoo do dodododoo dodo dodo dodododoo...

sabato 26 ottobre 2013

Concorso internazionale

Per molti anni il nostro Paese si è giustamente inorgoglito di essere la sola democrazia occidentale ad aver affidato le sue sorti a un Grande Statista, già ricchissimo uomo d'affari, che ha saputo agire con lungimiranza, competenza e spirito di sacrificio. 
Tutte le sue promesse elettorali sono state puntualmente attuate: le tasse sono state ridotte, il ponte sullo stretto di Messina è ormai una realtà, il sistema fiscale è stato riformato, le pensioni sono state aumentate, l'inflazione è stata debellata, il cancro è stato sconfitto, la spesa pubblica è stata ridotta, il tasso di disoccupazione è stato dimezzato grazie alla creazione di 4 milioni di posti di lavoro per i giovani, l'istituto del "poliziotto o carabiniere o vigile di quartiere" nelle città è risultato in una forte riduzione della criminalità, il piano decennale per le Grandi Opere ha permesso la costruzione di strade, autostrade, metropolitane, ferrovie, reti idriche e opere idro-geologiche per la difesa dalle alluvioni, come previsto dal Contratto con gli italiani del 13 maggio 2001. 
E queste sono solo alcune delle promesse mantenute!
Oggi,
  • mentre la Magistratura comunista e la stampa bugiarda continuano a fare di tutto per trasformare l'Italia in una dittatura bolscevica
  • mentre un drappello di traditori vorrebbe continuare a sostenere un governo al quale il Grande Statista ha dato la fiducia solo per senso del dovere
  • mentre la televisione nazionale paga stipendi d'oro, annualmente addirittura superiori a ciò che il Grande Statista guadagna in 10 giorni
  • mentre i rappresentanti della sinistra continuano imperterriti ad accendere candeline sotto il ritratto di Stalin che tengono in camera
  • mentre calunnie e menzogne di ogni tipo trovano spazio su giornali e riviste a riguardo non solo della fidanzata del Grande Statista, ma anche dell'innocente cagnolino Dudù
  • mentre si continua a mettere in dubbio la disinteressata generosità del Grande Statista verso la povera nipote dell'ex-presidente egiziano Hosni Mubarak e verso una serie di altre innocenti creature in difficoltà, alle quali si giunge perfino a rinfacciare il fatto di essere tutte ragazze giovani e belle (almeno secondo i criteri del Grande Statista)
  • mentre si cerca (invano!) di ridicolizzare la spiritualità delle barzellette che il Grande Statista racconta sempre con piacere per sollevare il morale del popolo
  • mentre si osa spudoratamente continuare a criticare l'uso di cerone e di capelli finti destinati a dare del Grande Statista un'immagine tale da rendere tutti noi fieri di essere nati sul suolo italico
oggi che i danni dell'età colpiscono tutti gli esseri umani, ma non riescono a scalfiggere minimamente l'integrità fisica e psicologica del Grande Statista, questo Concorso è destinato a reclutare dieci geriatri di fama internazionale ai quali verrà data l'opportunità di studiare scientificamente le ragioni del Suo non invecchiamento, onde poterne poi far approfittare l'insieme dell'umanità.
Le lettere di motivazione, accompagnate da curriculum vitæ e da foto della figlia del candidato (qualora questa avesse tra sedici e ventotto anni, fosse carina e avesse bisogno di aiuto) dovranno essere spedite a questo Ministero entro e non oltre il 31 dicembre 2013.

Ad maiorem Silvii gloriam  

Te Silvium laudamus, te Dominum confitemur 
 
Gloria in excelsis Silvio

domenica 20 ottobre 2013

Un uomo piccolo piccolo

Un dormitorio a Birkenau

Dall'alto della mia più totale incompetenza sono un amatore di libri di matematica e di fisica. Ne leggo relativamente spesso. In questo momento mi sto pappando In Search of the Multiverse, di John Gribbing, del quale avevo già letto qualche anno fa In Search of Schrödinger's cat. Ottime letture.
Quando sono tornato in Italia, qualche anno fa, ho trovato in una libreria sassarese Penna, pennello e bacchetta - le tre invidie del matematico, di Piergiorgio Odifreddi, di cui più tardi ho anche letto Il Vangelo secondo la scienza. Entrambi i libri mi sono sembrati abbastanza superficiali. Più tardi ho visto Odiffredi a teatro, in compagnia di David Riondino, in una dimenticabilissima conferenza-spettacolo basata su Flatlandia, il classico di Edwin Abbot. Mi è capitato inoltre più di una volta di leggere articoli di Odifreddi pubblicati dalla Repubblica e ho sempre sentito come un fastidio di fondo davanti al suo anticlericalismo così apparentemente nevrotico e ai suoi ragionamenti che mi sono spesso sembrati intrisi di vecchio scientismo ottocentesco alla Auguste Comte.
Questa volta però Odifreddi l'ha fatta più grossa del solito. Sul suo blog ha scritto: "Non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse so appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal ‘ministero della propaganda’ alleato nel dopoguerra, e non avendo mai fatto ricerche, e non essendo uno storico, non posso fare altro che ‘uniformarmi’ all’opinione comune; ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti, e che le cose possano stare molto diversamente da come mi è stato insegnato”.
Parlare di "opinione" a proposito delle camere a gas naziste è semplicemente ignobile. Giustificare questa ignominia con il fatto di non essere uno storico e di non avere mai fatto ricerche è di una stupidità senza limiti. Neanch'io sono uno storico e neanch'io ho mai fatto ricerche, però ho la debolezza di credere che Ottaviano abbia effettivamente vinto la battaglia di Azio, che Tamerlano abbia effettivamente conquistato Delhi massacrandone gli abitanti e che Garibaldi si sia effettivamente beccato una pallottola nella gamba destra sull'Aspromonte. Credo anche che i nazisti si siano effettivamente serviti di camere a gas per massacrare milioni di ebrei, rom, omosessuali e oppositori di vario genere. Credo infine che parlare di "opinione" a proposito delle camere a gas sia una porcata, indegna di un presidente onorario di quell'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti che ha onorato in passato dello stesso titolo qualcuno come l'astrofisica Margherita Hack o l'etologo Danilo Mainardi.
Odifreddi non è nuovo a questo tipo di raccapricciante esternazione. Un anno fa un suo post fu rimosso dal sito della Repubblica a causa delle numerosissime proteste. Intitolato Dieci volte peggio dei nazisti, faceva un paragone tra l'operazione Piombo Fuso dell'esercito israeliano e la strage delle Fosse Ardeatine: "Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi."
Lungi da me l'idea di giustificare Piombo Fuso e molte altre operazioni dell'esercito israeliano da molti anni a questa parte. Ma questo non è il problema.
Il problema è quello dell'orrenda contabilità da piccolo ragioniere delle sofferenze e dei drammi, nonché dell'inevitabile confusione che questo tipo di operazione inevitabilmente genera. E infatti un anno dopo ecco arrivare questo nuovo post che relega allo status di "opinione" le camere a gas naziste.
Un anno fa Odifreddi commentò le critiche ricevuta dalla Repubblica dicendo che i curatori del sito avevano già in precedenza "spesso ricevuto lagnanze, molte delle quali probabilmente in latino", mentre quelle appena giunte erano "questa volta sicuramente in ebraico". Il che è come dire che solo i preti si erano lamentati in precedenza di alcuni dei suoi post e solo gli ebrei si erano lamentati del suo ultimo post, altra argomentazione intrisa di eleganza e di intelligenza.
Vorrei dire a Odifreddi che non sono né prete, né ebreo. Vorrei dirgli che forse non sono nemmeno completamente cretino (parola nella quale lui vede l'etimologia di "cristiano"), che non sono nemmeno cristiano e che non ho l'abitudine di prendere per oro colato tutto ciò che raccontano i libri di storia. Ma credo di saper riconoscere uno scritto subdolamente antisemita quando lo leggo. Credo anche di saper riconoscere un piccolo uomo borioso e ignorante anche quando si nasconde dietro una cattedra universitaria.

domenica 6 ottobre 2013

Un po' di teatro giapponese

Chikamatsu Monzaemon
 
Al Teatro Argentina di Roma va in scena, ieri e oggi, uno dei testi più importanti del teatro classico giapponese, Doppio suicidio a Sonezaki (曾根崎心中, Sonezaki Shinjū), di Chikamatsu Monzaemon.
Definito talvolta "lo Shakespeare giapponese", Chikamatsu (1653-1725) diventò famoso a Kyôto come autore di testi per il teatro kabuki. Kabuki si scrive in giapponese con tre ideogrammi: (canto), (danza), (abilità tecnica).
Ai primi del '700, stanco del trattamento che numerosi attori facevano subire ai suoi testi, Chikamatsu si trasferì a Osaka per lavorare per il ningyô-jôruri, ovvero quella particolare forma teatrale che mescola marionette (人形, ningyô = forma umana) da una parte e recitazione cantata (浄瑠璃, jôruri = recitazione drammatica cantata, accompagnata dallo shamisen) dall'altra. Oggi quella forma viene chiamata bunraku, nome che deriva dal teatro Bunrakuza, fondato a Osaka nel 1805 dal grande marionettista Uemura Bunrakuken. Ancora oggi è a Osaka che è basato il Teatro Nazionale Bunraku, che produce un minimo di cinque spettacoli all'anno.
Una cosa strana per noi occidentali è che mentre il kabuki, teatro tuttora molto vivace, è essenzialmente un teatro di attori, basato sulla loro bravura, che spesso li porta a prendere grandi libertà rispetto al testo originale, il bunraku è un teatro d'autore, basato su un grande rispetto per l'opera del drammaturgo.
Ho visto tre volte in vita mia compagnie di bunraku, tra le quali il Teatro Nazionale, e l'ho sempre trovato molto meno ostico sia del kabuki che del , l'altra forma classica giapponese.
Il Doppio suicidio l'ho visto a un festival, in Francia, per puro caso pochi giorni dopo averne letto il testo, nella traduzione di René Sieffert. Con il testo ancora fresco in mente, ho avuto modo di apprezzare le varie scene non solo nel loro valore estetico, coreografico e musicale, come di solito avviene davanti a uno spettacolo esotico e dalla lingua incomprensibile, ma nella loro drammaturgia. Il che mi ha fatto vivere un'esperienza completamente diversa, lasciandomi l'impressione di un grandissimo testo.
La prima del Doppio suicidio ebbe luogo il 20 giugno 1703, esattamente un mese dopo che due innamorati, Tokubyôé, figlio di un ricco mercante, e O.Hatsu, giovane impiegata di un'okiya (置屋, casa delle geishe), si erano suicidati a Sonezaki, nell'allora periferia di Osaka. Il fatto aveva suscitato grande scalpore non solo a Osaka, ma anche a Kyôto, al punto che in entrambe le città gli improvvisatori del kabuki se ne erano già ispirati. 
Perché i due giovani si erano dati la morte? Semplicemente perché Tokubyôé era stato promesso a una ricca ereditiera, mentre O.Hatsu era in procinto di essere venduta a un cliente che l'avrebbe portata lontano da Osaka. 
Senonché Chikamatsu, aggiungendo il personaggio del perfido Kuheiji, che priva Tokubyôé della somma di duemila scudi d'argento che gli avrebbe permesso di liberarsi dal suo impegno matrimoniale, sposta il centro di gravità del dramma su un problema finanziario in un momento in cui il Giappone cittadino vive una situazione che Sieffert definisce da "società dei consumi". Chikamatsu fa così ciò che più volte ha fatto Shakespeare: parte da un marginale fatto di cronaca per parlarci della società in cui vive. Oltre tutto, fino ad allora i personaggi principali del bunraku erano sempre stati nobili e cortigiani del passato e mai quel tipo di teatro si era occupato di storie contemporanee.
Formalmente, il Doppio suicidio è anche importante perché è stato il primo spettacolo di bunraku nel quale il marionettista principale (dei tre che muovono ogni marionetta), quello che muove la testa e il braccio destro del pupazzo, non era più nascosto dentro un costume nero che gli copriva anche la faccia, ma appariva perfettamente visibile al pubblico.
Purtroppo la sola traccia che ho trovato su internet di una versione italiana del testo è vetusta: pare la si trovi in un libro di Marcello Muccioli del 1962, Il teatro giapponese, edito da Feltrinelli. Per i curiosi nonché poliglotti, esistono invece traduzioni francesi, spagnole e inglesi.
Lo spettacolo presentato all'Argentina è stato diretto da un regista noto soprattutto come fotografo, Hiroshi Sugimoto, il cui portfolio è visibile qui.
Non ho visto lo spettacolo dell'Argentina, ma dalle foto di scena e da ciò che ne ho letto non si tratta di una regia classica, né di marionette classiche, bensì di un'interpretazione contemporanea ispirata alla tradizione ma accompagnata da proiezioni di foto e video, il che mi rende sempre molto sospettoso. Anche per questo non rimpiango di essermene stato a casa con lo stramaledetto mal di schiena che mi avrebbe comunque impedito di andare a Roma.
Un'ultima cosa: noto sul sito della Japan Foundation, che è un po' il corrispondente giapponese della Dante Alighieri italiana, del Goethe Institut tedesco e dell'Institut Français francese, che il primo nome che appare nel cast dello spettacolo è quello di Tsurusawa Seiji, che non è né il marionettista principale, né il recitante-cantante, bensì il suonatore di shamisen (三味線 = tre corde), lo strumento (molto) vagamente imparentato alla nostra chitarra. Questo non deriva solo dal fatto che Turusawa sia stato dichiarato "tesoro nazionale del Giappone", ma anche dalla per noi inconsueta gerarchia all'interno del bunraku. Se lo spettatore occidentale può avere l'impressione che sia la voce del tayu (太夫 = recitante-cantante) che accompagna o è accompagnata dai movimenti delle marionette, in realtà è il suonatore di shamisen che impone la sua volontà al tayu, avendo perfino la possibilità di fargli ripetere una battuta o una parte narrativa quando trova che questa non sia stata offerta al pubblico in maniera soddisfacente. Anche questa (per noi) stranezza rende il bunraku così affasciante ai nostri occhi.
Non so se questo mio post interessarà a qualcuno. Ma non fa mai male dare un'occhiata a forme d'arte lontane da noi, che possono sempre aiutarci a trovare in culture diverse dalla nostra cose che ci accomunano piuttosto che separarci.