venerdì 30 dicembre 2011

Vecchi amici

Helen e Jules Rabin

Il mio vecchio amico Avram mi ha mandato stamattina una bella notizia via Facebook. Avram faceva parte della compagnia del Bread and Puppet Theater quando c'ero anch'io, nei primi anni '70. Abitavamo a Plainfield, nel nord del Vermont, in una fattoria prestata dal Goddard College, una scuola nota per la sua politica alternativa e “liberal, come si dice laggiù.
La notizia di stamattina riguardava non Avram, ma un altro vecchio amico, anzi una coppia di vecchi amici, Jules e Helen Rabin. Helen insegnava storia dell'arte, Jules antropologia. Un giorno, verso il 1972, si sono comprati un pezzo di terra non lontano dal college e si sono costruiti una casa. Quando dico che se la sono costruita intendo dire che se la sono proprio costruita con le loro mani, all'americana, con il solo aiuto di un amico falegname. Poi, una volta finita la casa, hanno deciso di cambiare mestiere e, da professori, sono diventati panettieri. Il che è una gran bella cosa. Si sono fabbricati un forno a legna e sono andati avanti per una quarantina d'anni vendendo pane cotto al lievito naturale. Poi qualche anno fa sono andati in pensione. Ne avevano diritto, visto che Jules ha ormai 87 anni e Helen pochi meno.
Ma da una cosa non sono andati e non andranno mai in pensione: l'impegno politico, fondamentalmente pacifista, che già dagli anni '60, a New York, li aveva messi in contatto con artisti come Peter Schumann, Merce Cunningham, Pete Seeger, Bob Dylan, John Cage e altri.
Avram mi ha mandato un link verso il sito della Vermont Public Radio,sul quale si parla di Helen e Jules (http://www.vpr.net/news_detail/92856/war-over-staging-final-vigil/).
Cos'hanno fatto i due vecchi pacifisti? Prendendo atto del ritiro degli ultimi soldati americani dall'Irak, hanno interrotto, dopo nove anni, le loro piccole manifestazioni personali, settimanali e antimilitariste. Come sarebbe a dire, manifestazioni personali, mi chiederà l'impegnato lettore, abituale frequentatore di oceanici raduni di fronte a San Giovanni in Laterano, la cui utilità è peraltro non dissimile da quella di un'aspirina nella cura del morbo di Parkinson? Un po' di calma, adesso vi spiego.
La casa dei Rabin è a una ventina di chilometri dalla città di Montpelier, capitale dello Stato del Vermont. Montpelier è una città di 7855 abitanti (censimento 2010). Sì, avete letto bene: settemilaottocentocinquantacinque abitanti. È vero che in tutto il Vermont di abitanti ce n'è meno che a Palermo e che la città più popolosa dello Stato, Burlington, ne ha appena mille più di Alghero...
Montpelier insomma non è proprio New York. È un posto che conosco abbastanza bene, organizzato attorno al crocevia tra Main street e State Street. Su Main street ci sono il teatro, la farmacia, il Coffee corner e il ristorante cinese; su State street ci sono il parlamento, il museo e l'ufficio postale. Ed è proprio davanti all'ufficio postale che, da nove anni a questa parte, tutti i venerdì verso mezzogiorno, arrivavano in macchina Helen e Jules Rabin. Parcheggiavano, tiravano fuori i cartelli che avevano preparato e si mettevano lì, immobili, sul marciapiedi, per un'oretta, mentre, ci dice il sito della radio, “the lunchtime crowd streamed by”, cioè la folla dell'ora di pranzo passava (anche se non è chiaro quale folla possa esserci in un paese di settemilaottocentocinquantacinque anime). Poi, come ogni venerdì, qualche simpatizzante veniva a mettersi di fianco, in piedi, senza parlare, semplicemente per testimoniare solidarietà. Questo succedeva tutte le settimane, anche quando, come in questo momento, le temperature medie erano di -3° per le massime (!) e -10° per le minime (con punte, sempre per questa settimana, di -14° per le massime (!!) e -19° per le minime).
La notizia mi ha colpito perché di quelle manifestazioni, a suo tempo, ne avevo fatte anch'io, proprio a Montpelier. Era il dicembre del 1972. Nixon aveva ordinato poco prima di Natale una serie di nuovi bombardamenti sul Nord-Vietnam. A Montpelier, come ogni anno, in Main street era stato messo un presepe con delle statue di taglia umana. C'era la capanna con dentro Giuseppe, Maria, il bambinello, l'asino e il bue e c'erano, credo, due o tre pastori e un angelo. Io per un paio di settimane me ne andavo a Montpelier in autostop. Arrivato al presepe mi infilavo una palandrana nera sopra i numerosi maglioni e giacche necessari per resistere al freddo, mi coprivo la faccia con una maschera grigia di donna vietnamita, mi infilavo dei guantoni pelosi di dimensioni gigantesche, entravo fisicamente nello spazio del presepe e me ne stavo lì per un'ora, immobile come una statua, con il solo scopo di mettere il Vietnam all'interno delle celebrazioni natalizie. Poi, quando sentivo suonare l'una, mi toglievo maschera e costume e me ne andavo a farmi un grog al bar di fronte, prima di tornarmene in autostop alla fattoria. Credo di essere andato avanti quotidianamente per almeno tre settimane, cioè per la durata della campagna di bombardamenti, che finirono col fare più di 1500 vittime civili.
Spesso, mentre me ne stavo lì immobile a guardare i rari passanti attraverso i buchi degli occhi della maschera, sentivo che qualcuno mi salutava e certe volte mi accorgevo che qualcuno si fermava e veniva a mettersi anche lui, o lei, dentro il presepe con me. Altre volte invece un passante mi insultava, o sputava per terra. Ricordo che una volta Helen e Jules, che erano venuti a Montpelier a far compere, si misero anche loro di fianco a me.
Insomma, non voglio farla lunga, ma la notizia mandatami da Avram mi ha colpito. Naturalmente ci sarà chi dirà che questo tipo di manifestazione individuale non serve a niente. Può darsi.
Può darsi però che a qualcosa serva, se non altro a far abbassare il livello di testosterone del dibattito politico, sempre così smisuratamente elevato. Può darsi che serva come serve il silenzio, a dire cose che la voce non può dire. Può darsi che sembri non servire a niente a chi l'osserva da lontano, ma quarant'anni dopo io continuo a pensare che almeno a me sia servita a qualcosa. Anche per questo mi ha fatto un immenso piacere sapere che il vecchio Jules e la vecchia Helen erano ancora lì, venerdì scorso, come tanti anni fa.
È così che mi è venuta voglia di raccontarvi questa storia da niente come regalo di buon anno.

martedì 20 dicembre 2011

Santa (quasi) subito



 Guardate bene questa immagine. Guardatela bene perché io quando l'ho vista non ci credevo. Questa dovrebbe essere Gah-Dah-Li Degh-Agh-Widtha secondo il sito www.caribuklabber.it).
E chi sarebbe Gah-Dah-Li Degh-Agh-Widtha, mi chiederà il curioso lettore poco informato sulla cultura irochese?
Gah-Dah-Li Degh-Agh-Widtha è la prima santa di origine amerindiana. Santa Gah-Dah-Li?, insisterà lo stupefatto lettore. No, no: Santa Caterina, visto che è questo il nome che le fu “imposto” (uso a proposito il verbo impiegato dal sito www.paginecattoliche.it) dai missionari francesi.
Gah-Dah-Li era un'indiana irochese della tribù dei Mohawk.
E chi erano i Mohawk, incalzerà il pellerossafilo lettore?
I Mohawk erano una tribù originaria del nord-est degli Stati Uniti (anche se Stati Uniti ancora non erano), che si distinse per la sua alleanza con gli olandesi prima, con gli inglesi e coi francesi poi, contro gli altri indiani. Verso il 1636, per esempio, i Mohawk uccisero il capo dei Pequot, tale Sassacus, che era venuto a rifugiarsi da loro perché ricercato dai bianchi. Più tardi, nel 1666, i francesi attaccarono e sconfissero i Mohawk, accettando poi la pace solo a condizione che gli indiani si facessero cristianizzare dai gesuiti.
Insomma, bella gente, questi Mohawk, che hanno sempre preferito allearsi con l'invasore piuttosto che difendere la propria cultura.
E qui non resisto e vi metto un'altra immagine di Gah-Dah-Li.


Ora, questa Gah-Dah-Li, diventata Caterina per volontà gesuita, morì alla giovane eté di 24 anni. Pare che in vita avesse il volto deturpato dal vaiolo, ma pare altresì che ogni traccia della malattia sparì miracolosamente pochi istanti dopo la morte. Meno male che era morta, mi dirà il cinico lettore, sennò avrebbe anche potuto incazzarsi un po': “Ma come?, avrebbe potuto dirsi, ho avuto una faccia mostruosa per 24 anni ed è mò che sono morta che torno fresca come una rosa?” (non si sa bene se i Mohawk usassero l'avverbio mò, ma io lo ipotizzo).
Ma torniamo a www.paginecattoliche.it. Questo eccellente sito ci informa che il padre della giovine altri non era che un "selvaggio pagano dei pellerossa Mohawks", il quale, durante "un'incursione nel Canada si era imbattuto in una giovane cristiana algonchina, se n'era invaghito e, invece di farla sua schiava, l'aveva fatta sua sposa". Cosa strana, sembra sottintendere il "Sac. Guido Pettinati SSP”, autore del testo, poiché tutti sappiamo che i selvaggi pagani sono soliti fare schiave le donne di cui si invaghiscono.
Forse dovrei limitarmi a copiare qui l'integralità del testo del Sac. Guido Pettinati SSP (qualcuno sa cosa vuol dire SSP?), che è da solo in grado di suscitare ilarità o indignazione, a scelta. Vediamo per esempio questo paragrafo:
A quattro anni la beata rimase orfana. Il vaiolo scoppiato nel 1660 le aveva distrutto la famiglia e le aveva deturpato il volto attorno agli occhi. Venne accolta nella capanna di un suo zio paterno, nel villaggio di Gandaouagué, costruito dopo l'epidemia, dove crebbe ritirata e serena, dedita alle faccende domestiche, con un'anima naturalmente cristiana". Ovvio: una bimba col volto deturpato dal vaiolo, nonché orfana a quattro anni, vive  ritirata e serena se ha l'anima naturalmente cristiana. Ma andiamo avanti:
Quando doveva uscire dalla capanna per andare a fare legna nella foresta o ad attingere acqua alla sorgente vicina, si avvolgeva in un ampio scialle dal colore cremisi per difendere gli occhi malati dalla viva luce del sole. Nelle ore di riposo, paga della compagnia delle zie e di una sorella adottiva, confezionava piccoli utensili domestici con le fibre delle radici o le cortecce degli alberi. Essendo assai ricercati, rappresentavano una fonte non indifferente di guadagno per la famiglia che l'ospitava. Più tardi imparerà a tramutare la pelle dell'alce e del bufalo in graziose borsette, e ad arabescare di cento disegni le grandi sciarpe dei guerrieri e dei cacciatori”. Perbacco! Signor Sac. Guido Pettinati SSP, ma lei è un grande! Lei è un poeta! Lei è il Leopardi di Santa Romana Chiesa, l'Ungaretti delle sacrestie, il Quasimodo dei conventi, il Montale dei chiostri, il Carducci dei presbiteri!
Tekakwitha crebbe senza scuola e senza studio, amante soltanto della solitudine e del lavoro, ma la grazia di Dio la condusse per vie misteriose alla pratica eroica di tutte le virtù, specialmente di quella più sconosciuta agli Indiani, la castità”. Ah, come ha ragione! La castità e gli indiani proprio non sono mai andati insieme. Ma sa che se non era per i Gesuiti questi qui sarebbero andati avanti a scopare come conigli? Non mi ci faccia pensare, mi vengono i brividi.
Comunque sia, nel 1666 ecco arrivare tre gesuiti, “decisi a evangelizzare quei selvaggi anche a costo della vita. (…) I tre "vestenera", P. Giacomo Frémin, P. Giovanni Bruyas e P. Giovanni Pierron furono accolti nella grande capanna dello zio di Tekakwitha (da non confondersi con lo zio Tom, anche lui selvaggio, ma per fortuna non pagano), capo del nuovo villaggio chiamato Caughnawaga. Nel breve tempo della loro sosta essi parlarono alla santa fanciulla di Dio e del suo infinito amore per gli uomini. L'anima di lei ne rimase conquisa per sempre tanto che crebbe con una invincibile ripugnanza, sconosciuta alla sua gente, per la vita matrimoniale”. Eh già: esiste forse per una donna migliore prova di cristianità dell'”invincibile ripugnanza per la vita matrimoniale”?
Ma cosa successe per davvero? Ebbene, certe vecchie zie della fanciulla “non vedevano l'ora di darla in sposa a qualche gagliardo cacciatore (nonché probabile scopatore come un coniglio). Alla proposta, la fanciulla impallidì, e non l'accettò sia perché era ancora troppo giovane e sia perché non intendeva contrarre matrimonio. Le zie, anziché darsi per vinte, sperarono di giungere al fidanzamento con la sorpresa e l'inganno (selvagge e pagane, quindi ingannevoli). Scelsero il fidanzato, stabilirono il giorno dell'incontro ufficiale d'accordo con i parenti, e incominciarono a circuire l'orfana con insolite cortesie (e già: di solito erano pure scortesi). Una sera la invitarono a sedere vicino al fuoco, al posto della zia più anziana. Frattanto la capanna cominciava ad affollarsi di invitati recanti sorrisi e regali. Ad un certo momento entrò anche il giovane prescelto, guardò la fanciulla a lui predestinata, si accostò incerto al focolare, fece cenno di sedersi accanto a Tekakwitha, ma costei, intuito il piano strategico delle zie, confusa e rossa in viso, si alzò di scatto e fuggì fuori della capanna sospirando: "Mio Dio, salvami da chi mi vorrebbe sua sposa. Prendilo Tu il candido giglio della mia verginità. E’ tuo, e tuo sarà per sempre".
Immagino che questo resoconto dettagliato l'eccellente Sac. Guido Pettinati SSP l'abbia ottenuto, se non da una videoregistrazione miracolosa, almeno da qualche testo scritto da uno di quei “selvaggi pagani” ispirati dalla grazia di Dio.
E qui mi fermo, perché c'è un limite a tutto. Anche alla stupidità.
E mi dico: ma è mai possibile che ancora oggi, nel XXI secolo, si possano imbastire tali imbecillità? È mai possibile dimostrare ancora una tale mancanza di rispetto verso qualcuno che aveva la pelle di un colore un po' diverso da quella di Sua Santità Ratzinger da far girare immaginette di questo tipo?
 

È mai possibile usare un linguaggio tanto infantilizzante, degno tutt'al più di un romanzo rosa di serie Z?
E qualcuno mi può spiegare cosa c'entrano queste baggianate perfettamente offensive per il buon senso e di marca prettamente razzista con una qualsiasi religione? Per carità, io dalle religioni tendo a star lontano quanto un deputato dalla povertà o una velina dalla castità, ma è mai possibile che un Sac. SSP (nel frattempo ho cercato su internet: vuol dire Società San Paolo) non faccia il minimo sforzo per stare altrettanto lontano dall'imbecillità?
Mi chiederai perché mai mi è venuta voglia di scrivere di questa Gah-Dah-Li Degh-Agh-Widtha, che magari era solo una povera ragazza morta di vaiolo a 24 anni. Semplicemente perché oggi è stata fatta santa. Eh, sì, nonostante il defunto papa polacco abbia fatto più santi in vita sua di quanti ne avessero fatti tutti i suoi 263 predecessori riuniti (compresi Urbano VII, che fu papa per 13 giorni e Pio IX, che lo fu per 31 anni, 7 mesi e 23 giorni), qualcuno se l'era scordato. Ovvero, questa Caterina lui l'aveva fatta solo beata, lasciando al suo successore il resto del lavoro. 
Ma soprattutto, questa nuova santa è anche stata nominata patrona dell'ecologia, perché “era particolarmente abile nella concia delle pelli e nel ricamo con le perline”, ci dice Il corriere della sera. E che una venga nominata patrona dell'ecologia perché era brava a infilare perline ce la dice lunga anche sulla sensibilità ecologica di Santa Romana Chiesa.
Amen.

domenica 4 dicembre 2011

Confucio, no grazie


Facebook è una di quelle cose sulle quali tutti tendono ad avere un opinione. E queste opinioni sono spesso intrise di affettività, andando dal “belllisssimoooo” a “così ti sorvegliano, qualsiasi cosa tu faccia”. Non mi ricordo né quando né perché ho aperto una mia pagina Facebook (Fb per gli intimi...), ma devo dire che, avendo amici e famiglia sparsi su vari continenti, è anche un modo di avere notizie, di mantenere contatti e di essere al corrente di cose che altrimenti sfuggirebbero. Per carità, se sfuggissero non cadrebbe il mondo, siamo d'accordo, però mi ci ritrovo.
Quando dico che ho amici in giro per il mondo non voglio dire che ho “amici” (da mettere sempre rigorosamente tra virgolette) “di Fb”, poiché quelli sono un'altra cosa. Di quelli ne ho un po' più di 300 e molti manco so chi siano: persone che mi hanno chiesto l'”amicizia” e alle quali l'ho data semplicemente per una specie di cortesia elementare. Ce ne sono naturalmente alle quali l'ho rifiutata: fondamentalmente rompiscatole notori, o gente che stimo come puzzole. No, parlo di amici veri, cioè di gente che conosco e con la quale ho, o ho avuto, rapporti diretti.
Ieri sera ho aperto il computer un'ultima volta prima di andare a dormire (in precedenza l'avevo aperto nel pomeriggio) e ho trovato 81 aggiornamenti di stato provenienti da una sola persona. Manco a farlo apposta è una che non conosco e che pare abiti in Nuova Zelanda. Stamattina riapro il computer e trovo una nuova ondata anomala di provenienza australe. Mi sono messo a contare e ho trovato 146 aggiornamenti di stato che quell'"amica" aveva messo su Fb in 15 ore. 146! In media un aggiornamento di stato ogni 6 minuti e 10 secondi per 15 ore di fila!
Ora, oltre a constatare che la persona in questione deve avere una vita ben triste e vuota se per 15 ore di fila si mette a scrivere su Fb ogni 6 minuti e 10 secondi, ho ovviamente deciso di cancellarla dai miei “amici”.
Mi chiederete cos'erano quegli aggiornamenti. In realtà un po' di tutto: una serie di links verso YouTube (canzoni, soprattutto), una citazione di Lao Tzu, altri links verso articoli di giornali, foto e immagini varie da scaricare su internet (disegni, foto di bambini sconosciuti, di coppie che si baciano, di tramonti, di Maria Callas, di aeroplani, di attori, attrici e cantanti) e un'orgia di frasi melense con pretese di profondità, tipo “nulla è più complicato della sincerità”, “ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi”, “sono le donne difficili quelle che hanno più amore da dare”, e perfino “se fisso i miei ricordi sulla carta, è soprattutto perché non si perdano (in me) minuti d’oro, ore che risplendono come soli nel cielo tumultuoso e immenso che è la memoria. Cose che sono anche, come il resto, la mia vita.”. Provate a trovarvi davanti una cosa del genere mentre fate colazione! Vedrete che pane, burro e marmellata vi andranno subito di traverso e che non c'è verso, anche se buttate immediatamente giù una sorsata di té, ormai è troppo tardi, il male è fatto.
Amici” di Fb che leggete questo post, non esitate: se il social network è per voi un modo di condividere saggezze da cartine dei Baci Perugina, cancellatemi dalle vostre liste, giuro che non mi offenderò. Oltre tutto i Baci Perugina non mi sono mai piaciuti...
Amici che non siete solo “amici” di Fb, ma anche amici nella vita vera, mi fa piacere avere vostre notizie, ma vi assicuro che le (per fortuna) rare volte che anche voi vi lasciate andare a darmi da leggere l'ultima di Confucio non solo non mi rendete più saggio, ma mi provocate un netto e folgorante aumento di acidità intestinale.
Da parte mia prometto, anzi giuro solennemente, che mai e poi mai pubblicherò una "perla di saggezza" su Fb, anche perché già l'espressione "perla di saggezza" mi provoca un'urgente voglia di Maalox.
Detto questo, vado a farmi un caffé.

venerdì 25 novembre 2011

Nei mari del Sud

Robert Louis Stevenson
 
Fare spettacolo per tre settimane in una stessa città fa un gran bene allo spettacolo, lo fa crescere, gli permette di prendere una sua forma definitiva, ma è anche sinonimo di noia mortale. Checché se ne dica, alzarsi al mattino sapendo che è solo alla sera che si lavorerà, oltre a costituire una situazione privilegiata, è cosa che pone anche il quotidiano problema del “cosa faccio?”. Per carità, cose da fare ce ne sono sempre. In questo momento per esempio sto scrivendo il mio prossimo spettacolo. Però si finisce sempre col leggere molto, il che non è un male.
Sto leggendo Nei mari del Sud, di Stevenson, un bel libro. Stevenson è uno di quei rari autori, come Dumas o Verne, che si possono incontrare in gioventù e che poi ci accompagnano tutta la vita. Lo si incontra spesso prima di tutto con L'isola del tesoro, capolavoro del romanzo d'avventure, poi con La freccia nera; lo si ritrova un po' più tardi con Lo strano caso del Dottor Jeckyll e Mr. Hide e magari con Il signore di Ballantrae
Non avevo mai letto Nei mari del Sud e devo dire che è un gran bel libro, che non a caso è ancora oggi un riferimento obbligato per molti altri scrittori-viaggiatori, almeno quanto i romanzi di Walter Scott (un altro scozzese) lo sono per gli scrittori di romanzi storici.
Stevenson è partito per l'Oceania nel 1989, pochi anni prima che Gauguin se ne andasse a Tahiti. Ha girato da un'isola all'altra, per poi stabilirsi a Upola, nelle Samoa, dove è morto nel 1984.
Nei mari del Sud è un libro intriso di malinconia. Stevenson testimonia della fine di un mondo, di popolazioni decimate da malattie importate dai coloni bianchi, di culture distrutte dal missionariato cristiano. Eppure questa malinconia non è pesante, è come una nebbia leggera dietro la quale il lettore è affascinato dalla curiosità e dall'intelligenza dello scrittore, dalla sua umanità e dalla sua compassione che lo spinge, se non a giustificare, almeno a spiegare perfino il cannibalismo.
Quel che c'è di strano leggendo autori dell'800 è vedere come da un lato la lingua sembri essersi impoverita e dall'altro come ci siano ormai tutta una serie di espressioni e parole che nessuno oserebbe più utilizzare per paura di essere frainteso e di apparire politicamente scorretto. Ieri ho sottolineato un passaggio che traduco qui rapidamente:
Gli abitanti delle Isole Marchesi, bisogna osservare, aderiscono alla vecchia idea secondo la quale credenze e doveri hanno dei limiti locali. Non solo i bianchi sono esenti dalle conseguenze; ma le loro trasgressioni vengono viste senza orrore. (…) Un bianco è un bianco: è un servitore, per così dire, di altri dei, più liberali, e non deve essere biasimato se approfitta di questa sua libertà. Gli ebrei sono stati forse i primi ad interrompere questo vecchio riguardo tra le fedi; e il virus ebreo è tuttora forte nel cristianesimo. Tutti devono rispettare i nostri tabù, altrimenti ci mettiamo a digriganare i denti.
Ovviamente non vedo bene chi oserebbe oggi scrivere le parole virus ebreo, e per fortuna! Ma Stevenson non dà qui necessiaramente prova di un qualsiasi antisemitismo, come invece lo fa Scott in Ivanhoe (che resta comunque un grandissimo romanzo). No, qui Stevenson parla di qualcos'altro, e l'espressione vecchio riguardo tra le fedi mi è molto piaciuta e mi sembra estremamente attuale. Se oggi (e da molto tempo ormai) quel principio è sparito sotto valanghe di intransigenza e di fanatismo, credo lo si debba molto all'idea monoteista che, dopo aver fatto la sua apparizione nella Bibbia, si è sviluppata col cristianesimo prima, con l'Islam poi. Quando gli invasori islamici sono arrivati in India, per esempio, gli indiani non li hanno immediatamente detestati a causa della loro diversa religione: semplicemente si sono detti “noi di dei ne abbiamo a migliaia, loro ne hanno un altro, che problema c'è?”. Se gli invasori sono stati detestati, lo sono stati per la loro politica, per le tasse eccessive, per la sistematica distruzione dei templi, le cui pietre venivano poi usate per costruire delle moschee. Ma l'idea che un politeista* possa detestare un monoteista semplicemente perché quest'ultimo adora un suo Dio è assurda.
Ma Stevenson va più in là, spiegandoci che nei mari del Sud non solo le popolazioni locali non vedevano nulla di male nel fatto che i bianchi avessero un loro Dio, ma che non si offuscavano nemmeno della violazione di tabù per loro ancestrali da parte di quegli stessi bianchi. Spingere così in là il proprio riguardo per lo straniero mi sembra una cosa meravigliosa, una prova di intelligenza, di compassione (nel senso buddista del termine) e soprattutto di civiltà, impensabile nelle nostre società giudeo-islamo-cristiane.
Mi viene allora da chiedermi perché idee tanto belle e generose siano totalmente assenti dal nostro insegnamento e dalla nostra cultura e come mai così pochi siano quelli che riescono ad abbracciarle con semplicità e serenità. L'idea di rispetto dell'altro, del diverso, implica ormai, anche nelle persone più aperte, una corrispondente esigenza che l'altro rispetti non solo la nostra cultura, ma anche i nostri divieti e le nostre abitudini sociali.
Il problema è enorme, perché poi, con tutta la buona volontà del mondo, appare anche a me impossibile accettare cose come la superiorità delle leggi “divine” sulle leggi dello Stato, la mutilazione delle bambine attraverso l'ablazione del clitoride, o altri orrori del genere. Come fare allora? Come fare a coesistere, coabitare, condividere con popoli e genti mossi da logiche che anche il cristianesimo ha seguito per secoli attraverso oceani di sangue e di dolore, ma che oggi, almeno ufficialmente, l'Occidente ha superato?
Leggere Stevenson oggi ha almeno il vantaggio di spingerci a farci questa domanda, che non ha probabilmente una risposta unica e inequivocabile, ma senza la quale rischiamo di affondare sempre di più nell'orrore. 

*È sempre bene notare che in realtà l'induismo NON è una religione politeista e che tutti gli dei indiani altro non sono che aspetti di quel Brahman che altro non è che il principio divino che pervade ogni essere e ogni cosa. In questo senso l'induismo non è né politeista, né monoteista, poiché il Brahman pervadendo ogni cosa, non ha nessun bisogno di essere adorato. Quindi, nonostante si parli di decine, se non centinaia di migliaia di divinità indiane, si può dire che l'induismo è una religione senza Dio, almeno nel senso che noi occidentali diamo a
questo concetto. 

domenica 20 novembre 2011

Mah...




Che l'Arabia Saudita non sia esattamente la patria della libertà e dei diritti civili lo sapevamo da un pezzo. Che le donne di Ryiad, della Medina e di Gedda non avessero il diritto di guidare la macchina, ma nemmeno la bicicletta, sapevamo pure questo. Così come sapevamo che quelle stesse donne non hanno diritto di voto (dal 2015 avranno diritto di votare alle elezioni locali, come gli immigrati residenti in molti paesi d'Europa), non possono lavorare nel settore petrolifero, non possono far parte delle amministrazioni, non possono viaggiare, lavorare, andare dal dottore, né tantomeno subire un intervento chirurgico senza l'autorizzazione del marito, non possono sposarsi senza l'autorizzazione del padre, non possono ovviamente uscire di casa se non coperte da una palandrana nera e a capo coperto, non parliamo nemmeno di bere un Campari, ecc. ecc.
Naturalmente l'applicazione di tutti questi divieti è di responsabilità della polizia religiosa, agli ordini della Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, istituzione della quale il brianzolo comune di Arcore si vanta giustamente di non disporre.
Nei giorni scorsi però un membro di questa polizia ha raggiunto una vetta di stupidità che nessuna bigotteria religiosa al mondo può minimamente spiegare. Nella città di Ha'il, 270.000 abitanti, una coppia passeggiava; erano marito e moglie e quindi ne avevano il diritto. La cosa va sottolineata perché nella stessa città una donna di nome Khamisa Mohammad Sawadi, 75enne di nazionalità siriana, era stata condannata nel 2009 a quaranta frustate, sei mesi di prigione e la deportazione alla fine della pena, per essere uscita in compagnia di due uomini (condannati anche loro) che non facevano parte della sua famiglia. Questa donna no: lei passeggiava col marito, anche perché sapeva benissimo che non aveva il diritto di passeggiare da sola. Si avvicino un poliziotto e le ordina di coprirsi immediatamente gli occhi perché il suo "sguardo sensuale" l'ha messo in tentazione. Visualizziamo la scena: c'è un uomo che passeggia con di fianco un sacco nero semovente che ha un'apertura di una dozzina di centimetri per tre, attraverso la quale si vedono due occhi. Passa un poliziotto, vede i due occhi e immediatamente un inconfondibile gonfiore viene a manifestarsi nelle sue parti basse. Orrore! Orrore! Come può lui, promotore della virtù e preventore del vizio (ammesso che la parola preventore esista, ma non importa), subire quell'immonda turgidità se non per colpa di una qualche puttana che pur cercando inutilmente di nascondere la sua natura peccaminosa sotto qualche metro quadro di stoffa nera non può evitare di smascherare se stessa attraverso uno sguardo lascivo e concupiscente? Per farla breve, l'intervento del poliziotto non è piaciuto al marito, è scoppiata una rissa, sono venuti fuori i coltelli, e il marito è finito in ospedale.
È intervenuto allora, via stampa, l'illustre Sceicco Mutleg An-Nabit, portavoce ufficiale della Commissione per la prevenzione ecc., che ha dichiarato che il poliziotto aveva tutti i diritti di domandare alla donna di coprirsi gli occhi. Sì, proprio così. 
Tanto per capirci, è bene ricordare che quella stessa polizia si distinse una decina d'anni fa alla Mecca vietando a un gruppo di studentesse di uscire da una scuola in fiamme perché non erano vestite correttamente. Risultato: 15 ragazze morte tra le fiamme.
Ovviamente tutto questo va largamente al di là di ogni stupidità. Anzi, non si tratta più di stupidità, ma di puro fanatismo religioso, peraltro non dissimile da quello che per secoli ha fatto negare alla chiesa cattolica la possibilità che persone dalla pelle di colore diverso da quella degli europei avessero un'anima e che ha fatto bruciare sul rogo migliaia di streghe e di infedeli di ogni origine. Ma in fondo non si tratta nemmeno di fanatismo religioso, visto che sfido chiunque a trovare una sola sua in tutto il Corano che ordini alle donne di andarsene in giro mascherate da sacchetto della spazzatura, così come sfido chiunque a trovare un verso della Bibbia che dica che bisogna bruciare vivo chi è posseduto dal demonio. Se di fede si tratta, è solo di malafede. Il che, mi diranno i più atei dei miei lettori, è un pleonasma. Ma lasciamo perdere.
Di cosa si tratta allora? Da dove può venir fuori tanto odio, da quale arroganza, da quale paura? Scrivo a ruota libera e non so nemmeno io dove andare, mi mancano le parole. Com'è possibile che cose così esistano? Com'è possibile che al di là di qualche articoletto qua e là nessuno si ribelli veramente, nessuno monti una vera campagna internazionale che isoli una volta per tutte l'Arabia Saudita, petrolio o non petrolio?
Certe volte il mondo mi è davvero incomprensibile.

domenica 13 novembre 2011

È finita



Me ne sto qui, in questo cortiletto marsigliese, sotto una palma, davanti allo schermo del computer, a guardare e riguardare le scene della fine di Berlusconi.
Me ne sto qui a dirmi che adesso i guai continueranno, che la Scilipotitalia non cambierà dall'oggi all'indomani, che il futuro è lungi dall'essere roseo, ma per il momento godo come un grillo.
Me ne sto qui a leggere che forse il prossimo ministro dei beni culturali, o della cultura, che dir si voglia, potrebbe essere Settis e l'idea che si possa passare in così breve tempo da Bondi a Settis (via Galan) mi commuove.
Me ne sto qui a riguardare su YouTube le immagini delle monetine lanciate a Craxi nel '93 e quelle di ieri sera davanti a palazzo Grazioli e spero, fortissimamente spero che ci sia 2 senza bisogno di un 3.
Me ne sto qui un po' inebetito a rimpiangere di non essere a casa, non poter andare al mio caffé e pagare da bere a tutti.
Me ne sto qui a ripetermi che non è proprio il caso di far festa, che Monti è comunque un tecnocrate e che qualsiasi cosa possa tirar fuori dal cappello, quel cappello sarà pur sempre quello di un presidente della Bocconi, eppure non posso non ripetermi che chiunque è meglio di Berlusconi.
Me ne sto qui a domandarmi quanti anni ci vorranno, adesso che Berlusconi è un cadavere che cammina, prima che il berlusconismo finisca anche lui al dimenticatoio.
Me ne sto qui a ripensare a quello che ha detto ieri su una radio francese un filosofo, che un tempo si facevano sacrifici umani, mentre ora che il denaro è un dio non si scarificano più uomini, ma popoli interi.
Me ne sto qui seduto su questa sedia di plastica a chiedermi se ci sia davvero una pur lontana possibilità che Monti voglia e riesca a ridurre i privilegi della casta e a ridare un minimo di dignità alla politica e quindi a tutti noi.
Me ne sto qui a guardare per aria e a sorridere beato all'idea che adesso il legittimo impedimento non sarà più una scusa per evitargli di andare in tribunale.
Me ne sto qui a sperare che l'onda sia lunga e impetuosa, che l'entusiasmo di ieri sera non sparisca rapidamente nel grigiore ritrovato degli egoismi più biechi e lotto per non lasciarmi sopraffare dal pessimismo della ragione.
Me ne sto qui sotto il sole di novembre e mi sento un po' meno umiliato, un po' meno denigrato, un po' meno offeso, e questo per oggi mi basta.

venerdì 11 novembre 2011

Addio sogni di gloria


Nei momenti difficili è sempre bene fermarsi un momento per andare a cercare sollievo, conforto e stimolo nei grandi testi classici. C'è chi preferisce i filosofi, chi i romanzieri, chi i poeti. Non so chi Lui preferisca (sì, Lui, il nostro ex-Amato Leader) né so se troverà conforto in questo testo di altissimissimo tenore poetico e morale. Ma io lo inviterei comunque a leggerlo e magari pure a pensarci su un momentino.
Ah, dimenticavo: l'autore, che non so bene se definire aedo, filosofo, o poeta; l'autore che tanto ha saputo elevarsi al di sopra dell'animo umano da darci parole di tanta saggezza; l'autore il cui nome è ancora presente nei nostri cuori, ma il cui volto meriterebbe di essere scolpito sul Gran Sasso d'Italia come quelli di Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln lo sono sul Monte Rushmore; l'autore, che con inumana preveggenza ha saputo descrivere tanti anni fa la nostra condizione attuale; insomma, l'autore è Claudio Villa.

Quando ragazzi felici andavamo alla scuola
con la cartella a tracolla ed in tasca la mela
(meraviglioso questo incipit tutto teso a ricordarci l'umile nascita dell'ex-Amato Leader, accomunandolo oltre tutto, grazie alla mela, ad altri portatori di sogni come i quattro ragazzi di Liverpool e, perché no?, l'esteta di Cupertino)

per il futuro avevamo un vestito di gala
quante speranze di gloria di celebrità

(splendido rammento del fatto che fin da bambino Egli nutriva nobili ambizioni)

ma inesorabile il tempo tracciava il cammino
e a testa china anneghiamo nel nostro destino.
(straziante, inatteso e impetuoso cambiamento di ritmo che subito ci fa pensare a trapianti capillari, macchie di cerone sul fazzoletto bianco e casse di Viagra)
Addio sogni di gloria
addio castelli in aria.
(con lucida eleganza, l'autore contrappone qui, senza nominarle, le ville in Sardegna, ad Antigua e chissà dove altro, ai castelli, destinati a rimanere “in aria”)
Guardo con sordo rancore la mia scrivania
cerco a scacciare ma invano la monotonia
(“sordo rancore”. Meraviglioso. Quanto a “cerco a scacciare”, come non vedere un tenero omaggio a quel parlare semplice, senza fronzoli e prettamente popolano nella sua superficiale scorrettezza grammaticale che Egli sapeva usare con tanta maestria?)
Addio anni di gioventù
perché perché non ritornate più
(non è qui chiaro se l'addio sia da Egli dato agli anni della sua gioventù, oppure, in maniera ancora più disperata, a quella delle giovinette che, con generosa premura, faceva accomodare nel lettone di Putin e che ora si guarderanno bene dal ritornarci)
Sono una foglia d'autunno che nella tormenta
teme il grigiore dei giorni l'inverno paventa
(quella “foglia d'autunno” di ungarettiana memoria è uno dei momenti più alti della poetica claudiovillana. Ma ancora più importante è quel “sono”, che sta ad indicare come Egli abbia ormai coscienza, mentre se ne sta lì a temere “il grigiore dei giorni” senza veline e a paventare quell'inverno di cui un altro poeta parlò come dell'inverno “del nostro malcontento”, abbia ormai coscienza, dicevo, di non valere più di una foglia secca, cosa che peraltro molti di noi sapevano da tempo)

La donna sincera aspettai
compagna dei giorni miei
(ecco, ammettiamo pure una piccola debolezza in questo peraltro indimenticabile poema: non mi pare che Egli sia rimasto lì ad aspettare “la donna sincera”. Ad aspettarla, tutt'al più, c'era Tarantini, che poi però gliela portava sempre e comunque all'ora prevista)

ma invano cercai cercai
amore anche tu dove sei
(attenzione, perché qui c'è una trappola. Qual'è la parola importante? Invano? Cercai? Amore? No! La parola importante è “anche”. Rileggiamo il testo: ma invano cercai cercai / amore anche tu dove sei. È proprio la costruzione approssimativa della frase che ci fa capire come “anche” sia la parola fondamentale. È in quello smarrimento linguistico e lessicale che troviamo lo sgomento del vecchio con parrucchino, cerone e Viagra, che, già infilato sotto le lenzuola con un paio di meretrici pugliesi, cede a un attimo di legittimo dubbio. Attenzione: “anche” qui non è congiunzione: è sostantivo femminile plurale! Ciò che il poeta ci lascia indovinare con sottile eleganza è “dove sei ormai tu, amore (delle) anche”? Il sottinteso è naturalmente che ormai, vecchio decrepito com'è, umiliato davanti al mondo, perfino l'amore delle anche  non sa più dove sia. Avrebbe potuto, il poeta, parlarci di tette siliconate, di labbroni al botox, di culi imbottiti, e invece no: anche. Luminosa eleganza!)
Addio sogni di gloria
addio castelli in aria
(vedi sopra)
Prendo la penna e continuo la doppia partita
faccio una macchia d'inchiostro mi treman le dita
(e certo. Per un caduco istante è stata proprio questa la sua speranza: prendere la penna per firmare la lettera di dimissioni e poi continuare invece quella “doppia partita” che gli avrebbe permesso, nelle Sue ormai perdute speranze, di tirare avanti come se niente fosse. Ma, ahimé, il tempo è scaduto: dalla penna tenuta da dita tremanti ecco fuoruscire ormai solo una beffarda macchia d'inchiostro)

. . . . . .
Meglio tacer le memorie o vecchio cuor mio
sogni di gloria addio
(e ti credo: dovesse davvero raccontare quel che si ricorda, chi glielo eviterebbe il carcere?)

sabato 5 novembre 2011

No comment

Spread, bond, marketing, welfare, fashion, shopping, input, output, beach-wear, sound, target, plot, borderline, cheap, cool, hot, minimal, convention, media (pronunciato “midia”), indoor, rallenty, serial killer, trend, editor, anchorman, factor, news, round Robin, match, sweat (pronunciato suit), versus, domestico (invece di nazionale), editare, approcciare, supportare, show, entretainer (o entertainer), cult, footing, offside, bestseller, assist, devolution, turn-over, casual, mobbing, cover, escort, pusher, trailer, speaker, blockbuster, showroom, lobby, fiction, establishment, fantasy, imaging, know-how, privacy, pulp, horror, trash, boom, boiler, black-out, wireless, management (magari pronunciato manàgement), bodyguard, part-time, play-off, hard, account, killeraggio, monitoraggio, background, backlash, backup, crackare, internet point, layout, mailing list, multitasking, newsletter, time-sharing, teaser, petting, broker, bypassare, catering, dark, filling, no-global, work in progress, concept, advertising, audience, share, optional, display, location, opinion leader, packaging, testimonial, new entry, master, backstage, metal detector, cash, fitness, live, provider, stalking, task force, guest star, spammare, executive, top, briefing, ticket, linkare, risettare, user, golden boy, talent scout, bipartisan, summit, joint venture, new economy, stock options, business, open space, staff, gossip, sequel, prequel, bomber, sneaker, band, cocooning, pole position, glamour, filling, customizzare, restyling, cross-over, lingerie, low-budget, fashion-victim, must, personal trainer, brand, look, outing, call center, call girl, ecc. ecc. ecc...

(Ultima ora. Titolo di un articolo sul sito di Repubblica: Milano, via alla congestion card)

domenica 16 ottobre 2011

Caro "nero"



Caro “nero”,
lo so, è un modo strano di incominciare una lettera. Caro non mi sei, lo ammetto. Quanto a “nero”, vorrei poterti dare un nome, ma il fatto è che quel nome tu me lo rifiuti, affermandoti solo come un anonimo appartenente a un gruppo che ha scelto quel colore per farsi riconoscere. Non te ne voglio: a tutti noi, in alcuni momenti della vita, è necessario apparire, a noi stessi e agli altri, come anonimi appartenenti a un gruppo. In quell'anonimato scelto troviamo non solo forza, ma anche giustificazione ad atti e pensieri che, fossimo soltanto quel che siamo, fossimo solo un Carlo, un Marco, un Giovanni qualsiasi, avremmo difficoltà ad assumere.
Allora, sì: caro “nero”. Stamattina, insieme ad altri, sei sulle prime pagine di tutti i giornali. Se è questo che volevi ieri, sradicando segnali stradali, urlando, lanciando sanpietrini, rompendo vetrine e trasformando una manifestazione pacifica in guerriglia urbana, allora hai vinto. Ma non sono sicuro che fosse questo che volevi. Non ne sono sicuro perché non riesco a credere che tu sia tanto stupido da immaginare che ci sia qualcosa di importante nel finire sulle prime pagine dei giornali.
Se invece volevi qualcos'altro, se volevi indicare la strada da seguire a tutti quelli che consideri pecore consenzienti che avanzano silenziose verso il macello, se volevi sacrificarti, sacrificando la tua umanità, per far nascere una rivolta che consideri indispensabile per venir fuori da una situazione sempre più insopportabile per sempre più gente, allora non posso che dirti che hai perso.
Ho letto i giornali stamattina. Ci ho trovato tutta una serie di piccoli dettagli e aneddoti che cercavano di raccontarmi le tue gesta. Ho letto frasi pronunciate da te e da altri come te che mi hanno dato i brividi. Ho visto immagini, filmate da telefonini e telecamere, che mi hanno ghiacciato il sangue. Ho respirato un odio che mi ha avvilito, come uomo. Ho cercato invano un'idea, un'ideologia, un sogno: non li ho trovati.
Disperazione, questa sì, l'ho vista. Ma una disperazione tetra, oscura, arrogante. Non la disperazione di chi non ha nulla, ma quella di chi vi trova, in quella disperazione, una ragione per negare ogni possibilità di speranza, a sé e agli altri.
Non ho visto un combattimento. Si combatte per vincere, non per perdere. E anche quando si combatte sapendo che si perderà, perfino che si morirà, lo si fa perché si crede che, morendo, si permetterà ad altri di vincere. Ma il tuo non è stato un combattimento: solo un abbandonarsi all'adrenalina, un gioco perverso e funesto all'insegna di un'idea terribile: me ne frego. Me ne frego del futuro, me ne frego della vita, me ne frego degli altri, me ne frego della giustizia e della dignità, me ne frego. Probabilmente sai che quel “me ne frego” era uno slogan caro al fascismo e lontano anni luce da quegli altri lanciatori di sassi a cui tu vorresti assomigliare portando pateticamente attorno al collo un foulard che appartiene a un'altra storia, a un altro mondo. Ma non basta indossare un foulard per trasformare un vomito di odio in intifada.
Non so chi tu sia, da dove tu venga. Immagino che tu sia molte storie e molti posti e mi chiedo allora cosa ti faccia stare lì con altri come te, cosa ti accomuni a loro, cosa unisca la tua disperazione a quelle altre disperazioni. Non sono uno specialista e ammetto senza difficoltà non solo di non sapere, ma anche di non capire. Vedo documenti pubblicati su internet nei quali si inneggia pari pari all'anarcoindividualismo, a Che Guevara, a Ezra Pound, all'intifada, a Tolkien, a Peppino Impastato, in una specie di vortice, adrenalinico anche lui, nel quale vengono a morire, come stelle dentro un buco nero, idee e speranze di uomini e donne che nulla accomuna. Ho trovato un sito, il cui fondo verde chiaro è tapezzato di foglie di marijuana, in cui si parla di un tale Colin Clyde, un ventiduenne arrestato durante gli scontri di Seattle, nel 1999, che, portato in tribunale, disse al giudice “Prima di noi la protesta era terribilmente noiosa”. È davvero questo che c'è dietro? La noia?
E, visto che ti ho appena fatto una domanda, permettimi di fartene qualche altra. Come mai vedo così poche donne nel tuo gruppo? Non sarai ancora di quelli che pensano che le donne stanno meglio a casa? E ancora: come mai ti ostini a buttar giù vetrine di negozi e di banche, che da quel che capisco vedi come simboli del capitalismo e della globalizzazione, invece di prendertela direttamente con i meccanismi del capitalismo e della globalizzazione? Non posso credere che tu pensi veramente che sia spaccando qualche vetrina e qualche banca che potrai dare un colpo mortale al nemico... No, è ovvio: ti attacchi a qualche piccolo simbolo perché il tuo è un agire simbolico, è un segno, un simbolo, tutt'al più un invito ad altri a fare lo stesso. Ma anche se altri si mettessero a rompere vetrine e a saccheggiare qualche calzoleria o qualche negozio di computer, credi davvero che questo potrebbe scatenare una reazione a catena e cambiare la storia del mondo? Neanche questo riesco a crederlo.
Credo al terrore, questo sì. Lo destesto, lo considero deleterio e controproducente, ma ammetto che il terrore può “funzionare”, almeno per un certo tempo. Credo sia vero per il terrore istituzionale alla Pinochet o alla Stalin, credo sia vero per il terrore puntuale e locale di stampo brigatista, credo sia vero per il terrore militare di un esercito d'occupazione e credo sia vero per il terrore internazionale di stampo integralista. Il terrore “funziona” perché obbliga chi ne è vittima ad entrare in una logica di odio e di ritorsione che poi finisce sempre con lo sfociare in una “lotta finale”. Naturalmente chi semina terrore fa una scommessa sul risultato di quella lotta finale, pensando di poterla vincere. E certe volte la vince pure: basta guardare quanti dittatori sono morti nel loro letto e quanti continuano, ancora oggi, imperterriti, a sedere sulle loro poltrone di velluto.
Ma se tu credi davvero di terrorizzare chi sta nella stanza dei bottoni del capitalismo e della globalizzazione, ammesso che tale stanza esista, allora devo darti una delusione: tu, nel loro gioco, sei previsto dall'inizio. Lo sei come le zanzare lo sono da chi va in vacanza al lago, come le zecche da chi porta il cane a correre nei prati, come la stanchezza dell'indomani da chi corre la maratona. Sei previsto come una piccola seccatura senza conseguenze, come un inevitabile prurito, come una goccia che scende dal naso quando si cammina nella neve, niente di più. E tu sei lì, inoffensiva zanzara, che gridi “L'ho punto! L'ho punto!”, mentre lui già ha in mano il tubetto di crema che gli toglierà perfino la sensazione della tua puntura. Mi spiace dirtelo, ma non sei niente.
Potresti essere qualcosa. Potresti cercare una via diversa da tutte quelle che già non hanno portato a nulla. Ah, se sapessi quanti siamo a sperare di vedere quella via, a sperare che qualcuno ce la indichi! Quanto sarebbe bello se fossi tu!
Ma tu non la vedi, come non la vediamo noi. Senonché, mentre noi continuiamo, goffamente, col fiato sempre più corto, annaspando, tornando giorno dopo giorno sui nostri passi, alternando speranza e sconforto, a cercarla, tu gridi “me ne frego”. Perché non riesci nemmeno a credere che quella via esista. Perché hai già perso. Perché forse già sai che se anche qualcun altro te la facesse vedere saresti troppo impaurito, troppo vigliacco, troppo egoista, per prenderla. Sei come un calciatore che ha perso la partita prima di entrare in campo e che quindi non fa altro che fare falli e dare pedate senza senso.
Guarda, non pensavo nemmeno io che la mia lettera avrebbe preso questa piega e adesso non so come chiuderla. Dire a qualcuno che è una zanzara, che è una zecca, che non è niente, non è bello, me ne rendo conto. E mi piacerebbe essere di quelli che riescono a non cadere in queste trappole, ma non lo sono. Prendi la mia reazione, se lo puoi, come un istante di rabbia. Non credo tu sia una zecca, ma credo che comportandoti come lo fai corri davvero il rischio di diventarla. Ti invito a pensarci su un momento, tutto qui. Fosse anche per giungere alla conclusione che io ho torto e tu hai ragione, fammi il piacere, pensaci su un momento.
Come chiudere? “Cordiali saluti”? “Un abbraccio”? Non me la sento. Posso solo fare ciò che tu non fai, metterci il mio nome.
Massimo

venerdì 7 ottobre 2011

Luca Rodolfo, il mio nuovo eroe

Luca Rodolfo Paolini

Luca Rodolfo Paolini è, m'informa Wikipedia, segretario nazionale di un ossimoro chiamato Lega Nord Marche. Che le Marche fossero una nazione mi era sfuggito, ma non importa.
Luca Rodolfo Paolini è anche deputato. È iscritto al gruppo Lega Nord Padania. Ricordo agli amici lettori che la Padania è quel paese immaginario un po' a sud di Camelot, ma nettamente a nord delle Marche.
Il 28 settembre scorso Luca Rodolfo ha preso la parola alla Camera per offrirci alcuni dati riguardanti il suo lavoro di deputato.
Noi prendiamo molto meno di tanti direttori, segretari comunali e dirigenti locali, che zitti zitti portano a casa molti più soldi con molto minore impegno orario, ha affermato. Infatti, se consideriamo un parlamentare medio – io mi considero un parlamentare medio – che viene qui il lunedì pomeriggio e se ne va il giovedì sera, fa circa 330 ore al mese (qui magari avrei qualcosina da ridire sulla sintassi, però, non essendo specialista della grammatica della nazione marchigiana, preferisco astenermi).
Prendiamo 10 mila, 12 mila euro netti a seconda dei casi. Noi della Lega versiamo anche molto al partito, ma non tutti lo fanno. Noi portiamo a casa intorno ai 9.000 euro netti, con una busta paga di 20 o 25 euro l’ora . Sembra una cosa incredibile, ma se fate i conti è così (mi perdoni la pignoleria, ma in realtà non fa così: 9.000 euro per 330 ore fanno 27,27 euro all'ora). Allora, mi chiedo: è molto ? È poco?.
Lascio il giudizio al popolo (mi scusi ancora, non vorrei dare l'impressione di prendere me stesso per il popolo, ma io trovo che sia poco), ma guardiamo anche chi si impegna molto meno sul piano orario (come ha ragione!).
(Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania) (che non sarà il popolo, però è sempre un bel gruppo di deputati).
Bene, esimio deputato, io i conti li ho fatti. Ed eccoli qui.
330 ore al mese fanno 82,5 ore alla settimana, fatte da lunedì pomeriggio a giovedì sera. Ergo: quasi 12 ore il lunedì pomeriggio, più di 23 il martedì, il mercoledì e il giovedì (23 per ogni giorno). È la dimostrazione che voi deputati medi siete degli eroi, anzi degli extraterrestri mandatici dalla Provvidenza per migliorare le nostre vite. Non c'è che dire, la cosa meritava di essere segnalata.
Ma non è tutto. In un anno anche voi deputati medi avete diritto alle ferie estive (diciamo 6 settimane), a quelle di Natale e capodanno (2 settimane) e a quelle di Pasqua (1 settimana). Lasciamo pure perdere il 1° maggio, il 25 aprile e il 2 giugno. In tutto fanno 52-9=43 settimane lavorative all'anno. Se in 4 settimane voi deputati medi lavorate 330 ore, vuol dire che in 43 settimane lavorate 3547,5 ore. Siccome in 43 settimane ci sono 215 giorni lavorativi, il vostro impegno è di 16,5 ore al giorno lavorativo.
Ora, se anche voi deputati medi passate almeno 2 ore al giorno ad alzarvi, fare la doccia, lavarvi i denti, fare colazione, andare al gabinetto, pranzare e cenare, più diciamo 1 ora al giorno per andare e tornare dal vostro posto di lavoro, questo vuol dire naturalmente che vi restano 4,5 ore al giorno per dormire, andare dal dottore, dal panettiere, al cinema o a teatro, fare zin-zin con le vostre mogli, i vostri mariti e le/i vostri amanti, giocare coi vostri figli e i vostri nipoti, telefonare alla mamma, leggere il giornale e tutto il resto.
Cosa posso dire? Non siete solo dei supereroi, siete anche degli instancabili monaci di clausura insonni. E tutto questo per 10, 12 mila euro netti al mese, cioè una miseria...
Sa cosa le dico? Sono fiero di essere italiano.
Grazie, grazie, grazie.

giovedì 6 ottobre 2011

Piccola goduria aperiodica

Daniel Schechtman

Siccome il mio interesse per la chimica è più o meno uguale a quello di un esquimese medio per la coltura del mango o la caccia allo gnu, la notizia dell'attribuzione del premio Nobel a Daniel Schechtman ha suscitato nel mio profondo un interesse uguale a quello di Mariastella Gelmini per la necessità di cercare di dire cose intelligenti. Poi però ho visto la motivazione del premio: la scoperta dei quasi-cristalli.
Poffarbacco, mi sono detto, ma cos'è un quasi-cristallo?
Ovviamente ho voluto prima verificare cosa fosse un cristallo. Ho telefonato alla presidentessa del club delle amiche di Barbie, che mi ha subito risposto “uno Swarovski!”.
Ho capito che dovevo andare un po' più a fondo e ho cercato su Wikipedia. Ahimé, Wikipedia ha deciso di oscurare tutte le sue pagine in italiano in risposta al comma 29 del DDL sulle intercettazioni inventato dal nostro Amato Leader per imbavagliare la stampa. Spedito un pensiero solidale a Wikipedia, mi sono spostato sulla sua versione francese e ho letto che un cristallo è un solido il cui difrattogramma è essenzialmente discreto. Pur provando una certa ammirazione per la discrezione dei difrattogrammi, ho cercato qualcosa di meno oscuro e ho visto che un cristallo è anche un solido poliedrico, più o meno brillante, dalla struttura regolare e periodica formata dalla sovrapposizione ordinata di un grande numero di atomi, molecole, o ioni. Il che è già più chiaro.
Ho continuato la mia passeggiata su internet e mi si sono aperti orizzonti di goduria.
Per rendere la cosa più semplice immaginiamo di togliere una dimensione a un qualsiasi cristallo e di appiattirlo. Otterremo una struttura geometrica regolare del tipo di quella di un pavimento, nel quale una o più piastrelle formano un motivo geometrico che si ripete all'infinito. Questo tipo di ripetizione si chiama periodica. Un esempio di cosa periodica è la matematica, sia quella pitagorica sulla quase si basano addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, sia quella binaria, sulla quale si basa il funzionamento del computer sul quale state leggendo questo post.
Pare che già dagli anni '60 dei matematici si siano messi a giocare con strutture aperiodiche, che avevano la particolarità di non poter essere calcolate da un computer (rigorosamente periodico), ma di aver bisogno di calcoli fatti a mano uno per uno. Geometricamente parlando, ecco un esempio di struttura aperiodica:


Qualche anno prima, nel 1954, uno studente zuzzurellone, nonché futuro matematico e fisico di fama internazionale, Roger Penrose, si era divertito, con l'aiuto del padre, matematico e fisico pure lui, a elaborare il disegno di una “scala infinita”, conosciuta appunto come “scala di Penrose”. I due avevano pubblicato un articolo che finì poi nelle mani del geniale disegnatore M.C. Escher, che trasformò l'idea in alcuni disegni come questi:







Mi direte: ma a cosa mi serve sapere queste cose?
Probabilmente a niente, amici miei! Sono solo chicche, ma di quelle che mi riempiono di gioia e che mi danno voglia di offrirle a tutti. 
E, sempre a proposito di Nobel, se davvero tra un paio d'ore venisse l'annuncio che Bob Dylan ha il Nobel di letteratura, come pare possibile, allora la gioia sarebbe doppia.

Per i più curiosi aggiungo due links (in inglese):
http://plus.maths.org/content/quasicrystals-kleenex
http://en.wikipedia.org/wiki/Penrose_tiling

P.S. Qualche ora dopo: maledizione! Il Nobel è andato a Tomas Tranströmer. Chi aveva mai sentito parlare di Tomas Tranströmer prima di oggi? (e tu, là in fondo, dietro il tuo schermo, non fare il furbetto: lo so che tua madre è svedese...) 

lunedì 3 ottobre 2011

Dei neutrini

Trinh Xuan Thuan

Nonostante la triste notizia della non-esistenza di un tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso, notizia data in un primo tempo da un comunicato ufficiale del ministero dell'istruzione, università e ricerca dell'eccellente e istruitissima Mariastella Gelmini, il fatto resta: pare che i neutrini vadano più veloci della luce.
Prendendoci la briga di ricordare che la velocità della luce non è di 300.000 chilometri al secondo, ma più precisamente di 299.792,458, è comprensibile che gli scienziati del CERN di Ginevra abbiano creduto di avere le traveggole quando i loro autovelox hanno indicato 299.792,458.000.006. Al 6 finale non riuscivano proprio a crederci, tant'è che hanno passato sei mesi a verificare l'autovelox, ad assicurarsi che il tunnel della Gelmini fosse davvero sgombro e che nessuno di loro avesse bevuto un Campari di troppo prima di fare i conti.

Ma forse è bene ricordare cos'è un neutrino, anche solo per l'aspetto poetico e perfettamente astruso della faccenda.
Un neutrino è un fermione, cioè una particella elementare diversa da un bosone (mi raccomando: sempre ricordarsi di non confondere fermioni e bosoni...).
Se ho capito bene è anche un quark, e pure un leptone (fosse un adrone, cambierebbe tutto...).
Ha uno spin, cioè un momento angolare intrinseco (il che dice molto a noi comuni mortali...) di un valore di 1/2.
Ha una massa di 0,05 eV/c2, ovvero di 0,05 elettronvolt moltiplicati per il quadrato della velocità della luce (e le cose diventano sempre più chiare...).
Non ha carica elettrica.
Non ha carica di colore (il che non ha niente a che fare coi pennarelli, ma con l'interazione forte caratteristica di quark e gluoni).
Insomma, il neutrino è un robo che è inutile che noi semplici mortali cerchiamo di capire cosa sia, tanto non ci riusciremmo.
Fondamentalmente è un coso tanto piccolo che ce ne sono quantità che attraversano continuamente i nostri corpi, ma anche i muri delle case, le montagne e perfino i cervelli dei nostri politici (che nonostante le apparenze pare proprio siano più grandi di un fermione) senza che la cosa ci faccia un baffo.
Mi direte allora: “Ma, scusa, perché dovremmo preoccuparci di questi affari che non vedremo né sentiremo mai quando invece la Fiorentina si è fatta rimontare dalla Lazio e Ivano Fossati ha detto che non vuole più cantare?” Giusta osservazione, ma un tantino miope.
Di fatto 'sti neutrini, avendo percorso 732 chilometri in 6 miliardesimi di secondo in meno della sacrosanta velocità della luce , hanno 1) relativizzato Einstein, che della relatività è stato il papà, 2) provocato un terremoto con tanto di tsunami nel mondo di quelli che di queste cose si occupano, e 3) aperto nuovi orizzonti sulla comprensione del mondo in cui viviano, il che è una cosa comunque importante e direi pure fondamentale.

In realtà tutto quanto sopra non è in fondo che un pretesto per segnalarvi l'esistenza di un libro bellissimo, che sarà anche stato scritto nel 1998 e non tiene quindi conto delle ultime scoperte, ma che è pero una meraviglia di semplicità e di poesia. L'autore è uno dei miei idoli (tipo Bob Dylan, Alfred Jarry, o Benvenuto Cellini): l'astrofisico vietnamita Trinh Xuan Thuan, attualmente professore all'università della Virginia e ricercatore associato all'istituto di astrofisica di Parigi. A mio modesto parere, Trinh è il migliore volgarizzatore scientifico vivente e, laddove altri sembrano sforzarsi in maniera un po' macchinosa di creare dei ponti comprensibili tra scienza e coscienza, ovvero tra sapere scientifico e spiritualità, lui lo fa con una generosità, una chiarezza e un'intensità davvero ammirevoli.
Due soli dei suoi libri sono tradotti in italiano: uno è Dal big bang all'illuminazione, dialogo con Matthieu Ricard, monaco buddista tra i principali collaboratori del Dalai Lama; l'altro, quello più importante, è Il caos e l'armonia. Bellezze e simmetrie del mondo fisico, ed. Dedalo, disponibile a 17,85€ sul sito Hoepli http://www.hoepli.it/libro/il-caos-e-l-armonia-bellezza-e-asimmetrie-del-mondo-fisico/9788822002129.asp
Ve ne avevo già parlato in un post nell'ottobre scorso, ma siccome non ve lo siete ancora comprato, insisto.
Per chi legge il francese, consiglio anche Origines, ed. Fayard, 2003, L'empire de la lumière, ed. Découvertes Gallimard, 2008, e La mélodie secrète, ed. Fayard, 1988.
In regalo, quest'immaginetta che potete stampare e tenervi sul comodino per le preghiere della sera.

mercoledì 28 settembre 2011

Ecchisenefrega?


Altero Matteoli, nipote di Altero Luigi Matteoli, che fu il primo veterinario di Livorno, è il nostro ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Buon per lui. Se non fosse per l'alterigia anagrafica inflittagli da genitori poco scrupolosi, il suo nome non avrebbe probabilmente mai attirato la mia attenzione. Senonché l'ha fatto oggi il sito di Repubblica con un articolo intitolato Ance: fischi e urla contro Matteoli. I costruttori: “Vergogna”. (Pare che l'Ance, chissà perché scritta con una sola maiuscola, sia l'Associazione Nazionale dei Costruttori Edili).
Andato sul sito del Fatto quotidiano, ho trovato un altro titolo: “Vergogna, dovete andare via”. Matteoli contestato dagli edili.
Secondo Il Giornale, Un gruppo di costruttori critica il ministro Matteoli al grido di “Vergogna”, mentre per Libero Costruttori insultano Matteoli. Lui replica: non ci sono soldi.
Insomma, la cosa sembra seria. Talmente che me ne sono andato a guardare il video che documentava la contestazione anti-Altero. Ora, cos'ho visto nel video? Quattro, dico quattro (e forse solo tre, non si vede bene) signori in giacca e cravatta che effettivamente si scalmanano dal fondo della sala nella quale l'Altero ministro offriva una dimostrazione della sua competenza.
Devo proprio star lì a premettere che le mie simpatie vanno più spontaneamente a Repubblica e al Fatto che ai due altri organi di stampa precitati? Vabbé, l'ho fatto.
Ma mi chiedo: vale davvero la pena di spendere carta, inchiostro, tempo ed energia per segnalare e commentare il fatto che quattro, dico quattro, imprenditori hanno gridato a un pur Altero ministro che dovrebbe vergognarsi? Che giornalismo è questo, se ci porta a tirare conclusioni affrettate su fatti del tutto marginali?
Ahimé, come credo che il mio esempio le dimostri chiaramente, non si tratta solo di giornalismo berlusconiano, ma anche di quello di sinistra. È proprio indispensabile fare un articolo su un oscuro deputato PdL che propone di sostituire il 25 aprile con il 18, anniversario delle prime elezioni politiche del dopoguerra? Certo, la proposta è non solo una scemenza, ma anche un chiaro desiderio di far scomparire la Resistenza dalla nostra memoria comune. Ma lo stesso presidente dell'ANPI dichiara di pensare “che non se ne farà nulla”. Allora perché sventolare spauracchi se è ovvio dall'inizio che si tratta di stupide e meschine provocazioni?
In questo momento sono in Francia e leggo i giornali italiani su internet. Sono basito dalla prima pagina di Repubblica. Qualche titolo? Kutcher - Demi Moore, il matrimonio vacilla. Ecchisenefrega? La spesa delle star. La decadenza del look. Ecchisenefrega? Scilipoti e il giornalista, la gag del microfono. Ecchisenefrega? Vestire alla Sophia, con body, pizzi e tacchi d'oro. Ecchisenefrega? Addio all'opossum strabico, scompare la tenera Heidi. Ecchisenefrega? Rihanna show, secondo atto – dopo la campagna il centro. Ecchisenefrega? Pippo Baudo colto da malore. “È la pressione, ora sto bene”. Ecchisenefrega? Il calcetto? Lo organizzo online – impazza il network del gol. Ecchisenefrega? Ecc. ecc. ecc.
Ieri, o l'altro ieri, non so più, c'erano tre foto, dico tre, del colletto della camicia di Paolo Berlusconi, sul quale erano ricamate le parole mi consenta. Macchisenefregaaaa?!!!
Siamo inondati di notizie inutili. Finché si tratta di Rihanna, che non so chi sia, o del Carneade Kutcher, che scopro essere il marito di una che, da quel che mi risulta, non fa più film da vari anni, ancora ancora... Non leggo la notizia, e via. Ma ben più grave, irritante e deviante è che mi si voglia dare l'impressione di un imprenditoriato che si ribella a un ministro quando io stesso posso poi verificare con due clic che si trattava solo di quattro individui su non so quante decine o centinaia di presenti. È proprio necessario scendere così in basso? È proprio indispensabile che ogni giorno il giornale che leggo sia pieno di frasi rigorosamente virgolettate che poi si capisce, per ammissione stessa del giornalista, essere state dette in privato a un compagno di partito che ovviamente, anche se fosse il più scemo degli scemi, non sarebbe mai andato a raccontarle a uno della Repubblica?
Posso dire, senza farmi trattare da reazionario incolto, che l'oceano di inciviltà nel quale stiamo annegando è fatto anche di queste approssimazioni, di queste finte verità, di queste pseudo-analisi e di queste citazioni fantasiose?
Sarà meglio che vada a farmi un caffé...